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Cibo. Sentire comune o agire comune?

04/05/2018

Mauro Del Corpo

A margine della riflessione di Guido Ruffinatto e Sergio Vazzoler, Mauro Del Corpo propone un contributo sul tema di cibo e comunicazione e lancia una proposta per Ferpi.

 

Il recente intervento di Guido Ruffinatto e Sergio Vazzoler su cibo e comunicazione pone importanti questioni su come parliamo di cibo, cioè di qualcosa la cui funzione di “oggetto di consumo sulle nostre tavole” sembra marginale rispetto a molte altre: il cibo, prima di essere buono, deve essere bello, prima di essere un elemento che favorisce la socialità deve impressionare per il modo in cui è stato preparato.

È vero, come giustamente sottolineano Ruffinatto e Vazzoler, da qualche tempo gli elementi identitari di un alimento hanno acquisito un valore prima sconosciuto al grande pubblico dei consumatori: origine del prodotto, storia delle comunità, tracciabilità, benessere animale, etc.

In tutto questo la comunicazione ha certamente migliorato la propria capacità di essere sostenibile, nel senso che ha fatto della sostenibilità una componente essenziale della cosiddetta narrazione. Ma è sufficiente? Mi sembra questo il quesito che ci pongono i nostri due interlocutori. E, per rendere la discussione ancora più ricca di provocazioni, aggiungo: i comunicatori sono sostenibili?

In questa sede non mi interessa fare considerazioni di natura etica: il comunicatore sostenibile è quello che non metterà mai e poi mai la propria professionalità al servizio di un cibo o di un alimento che non sia oggettivamente “puro” etc. etc. Sarebbe troppo facile e non servirebbe a nulla.

Credo sia più utile allargare il ragionamento. “Made in Italy” è un’espressione che occupa il terzo posto nella classifica dei marchi a livello mondiale pur non rappresentando un vero e proprio segno grafico. Eppure il cibo, che di fatto è una parte rilevante di questo acquisito merito internazionale, non trova nel nostro lavoro di comunicatori una uniformità culturale così forte e condivisa da essere anteposta a un qualsivoglia messaggio promozionale.

Abbiamo salutato con gioia l’espressione “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”, slogan che ci ha accompagnato prima e durante Expo Milano 2015. E lo abbiamo fatto pensando ai valori che questo motto conteneva, per noi, per le nostre comunità, per l’umanità in generale. E dopo?

Oggi assistiamo a una serie di iniziative di grande ricchezza per la qualità dei temi e per il prestigio degli ospiti. Tutti si occupano di cibo e il mese di maggio vedrà Milano quale esempio emblematico di questa esasperata corsa al primato da conseguire. Tavoli di discussione che si sovrappongono senza che nessuno si faccia protagonista di un vero e proprio progetto comune. Intendiamoci, non sono qui per demonizzare il lavoro altrui ma questa frammentazione collettiva non mi sembra che ci faccia bene e soprattutto non capisco dove ci porti se non diamo seguito e continuità.

Faccio un semplice esempio per spiegare cosa intendo e per sottolineare che, purtroppo, questa modalità di promuovere le eccellenze non è solo legata al cibo: Piano City Milano. L’iniziativa è notevole e straordinaria per qualità della proposta e per riscontro di pubblico. Ma cosa viene fatto per creare un progetto che, partendo dalle istituzioni musicali della città per arrivare all’offerta privata di sale-prova per musicisti dilettanti, sedimenti non solo una cultura musicale “personale” ma anche una vocazione più radicata e consapevole negli stessi cittadini, siano essi fruitori o meno di quest’arte?

E allora quale ruolo per i comunicatori? Credo sia necessario, come Federazione, immaginare alcune linee guida che accompagnino il nostro lavoro se effettivamente vogliamo aggiungere al nostro mestiere anche l’aggettivo sostenibile. Non un sentire comune - questo la considero caratteristica genetica per chi vuol fare seriamente la professione - ma un agire comune che consenta a noi e ai nostri clienti di far parte di un progetto ampio e di lungo respiro.

Non possiamo pensare che un’idea come quella di FICO - ne parlo perché citata da Ruffinatto e Vazzoler - si sia persa all’interno di logiche comprensibili ma tipicamente commerciali. E non vorrei nemmeno che l’ennesima intuizione di Farinetti - che sta realizzando al Lingotto di Torino un superstore della sostenibilità, con abbigliamento, mobili, prodotti per la casa, giocattoli e mezzi di trasporto tutti rigorosamente ecocompatibili, bio e rispettosi dell’ambiente – si trasformi in un modello di consumo esclusivo per palati fini e con sicure disponibilità economiche.

E se osserviamo la Pubblica amministrazione non va così meglio: cosa è successo, per esempio, dei quaranta e più tavoli di Expo e delle riflessioni maturate dai soggetti che li componevano?

È paradossale come una buona campagna, non la più bella ma la meglio coordinata, sia stata quella del Ministero per i Beni culturali per promuovere il 2018 quale anno del cibo italiano. Un’idea tutto sommato semplice ma perfettamente coordinata con la missione del proponente.

Temi come l’innovazione in agricoltura, il consumo di suolo, lo spreco di cibo, l’educazione alimentare, il cibo per i più piccoli e per la popolazione anziana, e molti altri, richiedono certamente momenti specifici di riflessione ma non come materie esclusive, bensì come elementi di un più complesso sistema che necessità di professionisti della comunicazione che guardano nella stessa direzione, che si confrontano su un modello di progettualità diffusa e, indipendentemente da quali strumenti decideranno di utilizzare, hanno maturato la necessità di agire in modo coordinato. E quindi, sostenibile.

Allora, quale ruolo per la Federazione? Se pensiamo che a un sentire comune debba seguire un agire comune, occorre che di questa pratica si costruisca un modello vero e proprio. Un modello che abbia come riferimento alcuni titoli essenziali: progetto comune, valori comuni, linguaggio comune.

Siamo disponibili a creare un gruppo di lavoro che, partendo dal tema alimentazione, sia in grado di affrontare un confronto seriamente operativo e di affermare una capacità di coesione tra professionisti che operano su piani differenti e con interlocutori diversi ma che sono animati da una forte motivazione collettiva? Si tratta di iniziare un percorso aggiuntivo a quelli già in atto, con la consapevolezza che non sarà facile, ma con il piacere di lavorare insieme e con l’obiettivo di sommare le qualità dei singoli per risultati probabilmente sorprendenti.

Chi è disponibile, batta un colpo!
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