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La mafia, le RP e Bruno Vespa

28/04/2016

Giovanni Landolfi

Sono stati in molti a giudicare negativamente la scelta di Bruno Vespa di intervistare il figlio di Totò Riina, lo scorso 6 aprile, a Porta a Porta. La bufera ha riguardato la qualità del giornalismo italiano ma non solo. Giovanni Landolfi mostra in che modo ad uscirne male dall’operazione mediatica siano anche le RP.

 

L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina, a Porta a Porta lo scorso 6 aprile, ha sollevato una burrasca mediatica e uno scontro sui principi del libero giornalismo. Tuttavia, il giornalismo è soltanto al terzo o quarto posto tra i fatti rilevanti della vicenda.

Al primo ci sono le ragioni dell’economia di mercato. Senza preoccupazioni di tipo etico. Per spiegare la sua posizione, Vespa inizia la sua lettera al Corriere ironizzando: “Se Adolf Hitler risalisse per un giorno dall’inferno e mi offrisse di intervistarlo, temo che dovrei rifiutare”: ma il tema non è se Hitler tornasse, bensì se Hitler avesse scritto un Mein Kampf dopo e non prima di diventare Hitler. E se un libro del genere potesse finire in libreria o in tv.

Al secondo posto ci sono le relazioni pubbliche: “L’editore del libro di Salvo Riina ha offerto una intervista esclusiva al Corriere della Sera, a Oggi e a Porta a porta”, rivela il conduttore. Il libro è una notizia e il compito di chi fa il nostro mestiere è quello di ricavarne la maggiore eco possibile. Fatto. Sempre al netto di dubbi su cosa sia eticamente accettabile nel nostro lavoro. Perché è difficile nascondersi dietro alla semplice promozione di un libro. Lo ha spiegato impietosamente Roberto Saviano, che ha decodificato i messaggi nascosti nell’intervista televisiva di Salvo Riina e ci ha permesso così di precisare l’ordine dei fattori di questa vicenda: a monte sta il piano di comunicazione istituzionale della famiglia mafiosa, che ha asservito prima l’industria editoriale, facendo leva sulla vendibilità della storia, e poi i media, attraverso l’attività di ufficio stampa.

Una storia in cui vince il cattivo e l’industria dei media porta acqua al mulino della cultura mafiosa? Con il senno di poi sembrerebbe di sì. Ne esce male un giornalista di primo piano come Bruno Vespa, che si è prestato a un gioco poco edificante, ma ne esce male anche la macchina delle RP, che appare come un meccanismo opaco (chi conosce i nomi di chi ha gestito l’operazione con Porta a Porta?), privo di regole morali (qualcuno si è chiesto se fosse un’operazione accettabile?) e senza controllo: Vespa è stato censurato dagli stessi giornalisti oltre che dai commentatori, dalle istituzioni (il Presidente del Senato, Grasso) e dalla società civile (la famiglia Borsellino), mentre il problema della cinghia di trasmissione della notizia non è stato nemmeno rilevato. Per noi comunicatori, si tratta di una triste sentenza di inconsistenza. Non abbiamo né forma né immagine. Non abbiamo rilevanza organizzativa, deontologica o normativa e la nostra immagine è totalmente travisata: il termine “pierre” serve giusto per condire le pagine di cronaca, come quando scrivono che faceva il pierre uno degli assassini di Luca Varani o che c’è una pierre all’origine del caso Vatileaks.

 

 
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