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Parola d’ordine: stakeholder engagement

30/07/2015

Patrizia Rutigliano

Expo ha avuto l’effetto di un elettroshock per Milano al punto che la città è stata collocata dal New York Times in cima al ranking di 52 destinazioni nel mondo da visitare nel 2015. Non a caso è stata Milano ad ospitare l’Assemblea dei Soci Ferpi di quest’anno, come ha raccontato il Presidente, Patrizia Rutigliano, nel suo discorso di apertura, parlando anche di Rp e di come sia necessario cambiarne i paradigmi.  

Evidentemente non è casuale l’organizzazione dell’Assemblea 2015 a Milano, città che, in questa fase di grandi cambiamenti e di piccoli segnali di ripresa, rappresenta oggi meglio di altre lo spirito di reazione del nostro Paese al lungo trend di contrazione economica che auspicheremmo ormai superato. Più che un traino, l’Expo ha avuto l’effetto di un elettroshock, determinando un salto di qualità necessario a corrispondere una risposta adeguata alla domanda crescente e alle aspettative generate.

Un effetto talmente significativo da indurre anche il New York Times a collocare Milano in cima al ranking di 52 destinazioni nel mondo da visitare nel 2015, definendola una “città rivitalizzata”. Una città che non è soltanto la capitale della comunicazione ma che, in particolar modo durante questi mesi di Expo, è tornata prepotentemente e giustamente alla ribalta. La storia si ripete, mi piace dire: non è la prima volta, infatti, che Milano viene scelta come sede dell’Esposizione Universale. Accadde già poco più di un secolo fa e fu un riconoscimento che equivaleva all’ingresso nel gotha della modernità. Possiamo parlare quindi di un ritorno di Milano al centro della scena.

Anche oggi, come cent’anni fa, il tessuto economico e imprenditoriale di Milano si è arricchito in virtù di tante piccole e medie realtà imprenditoriali nate dalle capacità e dalla tenacia di personaggi venuti da fuori, in forza soprattutto del loro “culto” del lavoro ben fatto e della tensione all’eccellenza. Cent’anni fa avremmo parlato di Pirelli; oggi, nell’era della disruption tecnologica, dell’abbattimento delle barriere e della fine del modello relazionale cui troppe realtà si erano abituate, è necessario parlare di start up.

Secondo Wikipedia, tanto per rimanere in tema, con il termine startup “si identifica la fase iniziale per l'avvio di una nuova impresa, cioè quel periodo nel quale un'organizzazione cerca di rendere redditizia un'idea attraverso processi ripetibili e scalabili. Inizialmente il termine veniva usato unicamente per indicare la fase di avvio di aziende nel settore internet o tecnologie dell'informazione”. Successivamente il termine è diventato sinonimo di ciò che sui mercati azionari viene chiamato matricola, ma nell’immaginario collettivo di tutti noi assume le caratteristiche di scommessa vincente, di messa in discussione degli stereotipi e dei canoni con cui siamo abituati a lavorare.

Potrà sembrare una provocazione, ma a uno sguardo ben attento noterete che possiamo senz’altro applicare questo paradigma anche al ruolo che siamo chiamati a svolgere nella nostra professione. La rivoluzione digitale ha trasformato il concetto di comunicazione, modificando paradigmi e cambiando anche la fruizione stessa dei contenuti. Sufficiente dare un’occhiata, anche d’insieme e per grandi linee, ai dati di questa ricerca Nielsen del marzo 2015 sulla Digital Audience in Italia, per farsi un’idea della trasformazione intervenuta. Ad oggi ci sono 21,5 milioni di utenti unici online nel giorno medio, l’80% dei quali – pari a 17,4 milioni – prevalentemente attraverso device mobili (smartphone e tablet). C’è un altro dato, però, che segnala in maniera rilevante la necessità di adeguare il modo di fare comunicazione: 9 milioni di utenti, pari a oltre il 40% del totale, si connette solo ed esclusivamente da mobile.

Volendo estremizzare l’interpretazione del dato con un’istantanea: la gente oggi legge al rosso di un semaforo e probabilmente ha una soglia di attenzione non di molto superiore alla sua durata. Come fare dunque a intercettare un pubblico così sfuggente e quasi “bulimico” – concedetemi l’espressione un po’ forzata – nel suo cibarsi in maniera “fast” di informazioni e contenuti? Devono cambiare inevitabilmente anche i paradigmi delle pr, in virtù di una domanda di cambiamento che deriva dal basso, catalizzata dai bisogni insoddisfatti – o ipersoddisfatti – che la crisi porta a galla.

Quello a cui assistiamo oggi è un discorso pubblico sempre più contraddistinto – “inquinato”, direbbero i critici – dalla too much information, che in alcuni casi è anche una too fast information, che va a discapito dell’accuratezza, della dialettica, della completezza, della sfumatura. Sono aumentati i canali ed è aumentato il volume delle informazioni. E’ un mondo di quantità, prima ancora che di qualità. Questo, come ogni cambiamento, genera opportunità e rischi. Anzitutto, scardina alcuni dei principi sui quali si è basata la comunicazione strategica per molto tempo e richiede una conoscenza ancora più accurata degli stakeholder e delle loro esigenze.

Oggi – e cito ancora dati Nielsen di marzo 2015 – la popolazione che accede al web è composta per il 42% da uomini e per il 38% da donne. La fascia di età principale è quella che va dai 18 ai 24 anni con il 67%, seguita dal 66% dei 25-34enni e dal 56% dei 35-54enni. Un dato, quest’ultimo, che segnala come il web non sia affatto un affare riservato ai nativi digitali. Anzi.

Ma ci sono altri elementi numerici, a ulteriore sviluppo dei precedenti, sui quali vorrei soffermarmi in modo da rappresentare ulteriormente il cambio di paradigma in corso. Da un’indagine Censis di quest’anno, dedicata al tema “Come si informano gli italiani” è emerso che in media il 70,9% lo fa attraverso internet, con un +7,4% rispetto al 2013. Un dato che, spacchettato in fasce di età, si trasforma in 91,9% per gli under30 e in 27,8% per gli over65, a ulteriore supporto di quanto dicevamo prima sul web territorio di conquista anche per coloro che non si possono definire millennials.

Quanto esaminato finora ci pone di fronte quesiti di non poco conto: il cambiamento lo stiamo dettando oppure lo stiamo subendo? Il processo cruciale dell’agenda setting, sia per le istituzioni pubbliche per cui lavoriamo sia per le imprese, può rispondere agli stessi criteri che abbiamo utilizzato fino ad ora, o è necessario un cambio di paradigma totale? E poi: quale agenda? L’agenda è una sola oppure ce ne sono diverse, ciascuna con le proprie logiche e con le proprie peculiarità, ciascuna a sé, da esaminare e da governare? Sono domande che necessitano di una risposta, e la necessitano ora.

Non sottovalutiamo dunque l’opportunità eccezionale che ci fornisce questo cambio di paradigma, in cui la Rete non solo spesso gioca la prima mossa, ma ha anche l’inderogabile diritto a fare l’ultima. La Rete, lo strumento più democratico e low cost che ci sia. Scivoloso, certo, ma imprescindibile. E allora noi che facciamo “rete” per definizione non possiamo sottrarci: finiremmo, altrimenti, per dare ragione a chi non crede nell’importanza del comunicare e potremmo soltanto finire per lamentarci senza costrutto… sempre che ci rimanga ancora la voce per farlo. Personalmente, continuo a essere dell’opinione che – parafrasando Steve Jobs, per quanto costituisca ormai un riferimento abusato – “investire nella comunicazione in tempo di crisi sia come costruirsi le ali mentre gli altri precipitano”.

Nell’era della comunicazione “liquida” e disintermediata, la parola d’ordine (anche se in realtà sono due) è stakeholder engagement. Prima di tutto, dobbiamo abituarci ad anticipare le esigenze di chi con noi condivide interessi e percezioni e giustamente intende dire la sua, anche e soprattutto dal basso, nell’ottica di un dialogo educativo e costruttivo, proponendo, mettendo sul tavolo le tematiche e soprattutto mantenendo un atteggiamento aperto e comunicativo, autorevole ma coinvolgente. La disintermediazione di cui dicevamo, se da un lato giova al dibattito, dall’altro produce una pletora di voci spesso fuori controllo, ridondanti e che finiscono per indebolire la forza del messaggio e la qualità del dibattito stesso.

Ecco perché, in un certo senso, non solo abbiamo ancora bisogno di corpi intermedi come Ferpi, ma ne abbiamo forse ancora più bisogno; nell’ottica, però, di una riforma tout court, in quella che è l’accezione etimologica del termine, ovvero di dare nuova forma alle cose, adeguandole ai tempi, senza tuttavia stravolgerne la natura. È quello a cui abbiamo lavorato in questi anni, vedendoci riconoscere in tal senso anche l’iscrizione al registro delle associazioni professionali presso il Ministero dello Sviluppo Economico, unica associazione del nostro settore. Un traguardo, ma al tempo stesso un punto di partenza per arrivare a una rappresentanza piena ed efficace della nostra professione, che riesca a racchiudere e sintetizzare tutti gli interessi e le istanze della galassia di soggetti che la compongono, evitando parcellizzazioni e ostacoli di sorta.

Per dare concretezza a questi propositi, tra le altre cose, mi piace citare un progetto che ha visto la luce negli ultimi mesi, ovvero la trasformazione del sito ufficiale di Ferpi in un think tank sui temi della professione, che mira ad essere sempre più rispondente alle esigenze di un mutato scenario sociale, mediatico e professionale, valorizzando il ruolo di media factory. Un luogo di confronto e dibattito sull’evoluzione delle relazioni pubbliche e più in generale della comunicazione. Una piattaforma innovativa e dinamica che, da un lato, sia in grado di consolidare l’attività di networking tra i diversi stakeholder del mondo delle Relazioni pubbliche e dall’altro riesca a intercettare le nuove esigenze di una professione in continua e profonda evoluzione come la nostra, traducendole in proposte concrete per il settore e non solo. Così riusciremo a essere i veri attori protagonisti del cambiamento in corso.

Un cambiamento – parlavamo all’inizio dei piccoli segnali di ripresa – che è anche nei numeri macroeconomici di scenario e di settore.

Il 2015 marca finalmente una sia pur minima ripresa dell’economia italiana, ovvero un’inversione di tendenza rispetto all’andamento degli ultimi 8 anni. Tant’è che il Presidente Squinzi, all’Assemblea Annuale di Confindustria, ha parlato di “segni di risveglio, accenni di crescita”. [fonte: Relazione Presidente Squinzi all’Assemblea Annuale, 28 maggio 2015.]

Qual è il problema che ci si sente ripetere da più parti? Che non essendo state fatte riforme per tanti anni, la ripresa rischia di essere timida.

L’OCSE stima una crescita del PIL in Italia dello 0,6% nel 2015 e dell'1,5% nel 2016. La ripresa è sostenuta essenzialmente dalle esportazioni, ma si estenderà anche ai consumi privati. [fonte: OECD, OECD Economic Outlook, maggio 2015.]

La fiducia di imprese e consumatori italiani risulta però ancora incerta: dopo il picco raggiunto a marzo 2015 – dopo un trend pressoché ininterrotto di crescita iniziato nel 2013 – l’indice di fiducia dei consumatori è sceso del 4,5% tra marzo e maggio e quello delle imprese del 1%. Peggiorano in particolare le attese dei consumatori sull’attuale situazione economica e le aspettative sulla disoccupazione. [fonte: Istat, Rilevazione della fiducia dei consumatori, 28 maggio 2015, 29 aprile 2015, 30 marzo 2015.]

C’è, evidentemente, la percezione che questa crescita non abbia una base solida, perché non è sostenuta dalle riforme. Tant’è che l’OCSE ci fa rilevare che se tutte le riforme necessarie fossero implementate, nel 2030 il PIL pro capite italiano sarebbe superiore del  12% a quello che avremmo sempre nel 2030 se le riforme non venissero attuate. [fonte: OECD, Economic Survey of Italy 2015, febbraio 2015.]

Nel nostro macro-settore, i servizi, il clima di fiducia invece cresce e da gennaio 2015 l’indice è salito del 13,4% (nonostante una flessione del 3,4% ad aprile rispetto al mese precedente). [fonte: Istat, Rilevazione della fiducia dei consumatori, 28 maggio 2015, 29 aprile 2015, 30 marzo 2015.]

Per il terzo trimestre di fila il fatturato del comparto servizi ha il segno più, ma parliamo di una crescita lieve: nel primo trimestre 2015 la crescita è stata infatti solo dello 0,3%, mentre nello stesso periodo i servizi di informazione e comunicazione sono cresciuti dello 0,8%. [fonte: Istat, Fatturato dei Servizi, I trimestre 2015, 27 maggio 2015].

Buone notizie per il nostro settore vengono anche dagli altri Paesi, dove, ad esempio negli Stati Uniti, il 2014 ha marcato il 5° anno consecutivo di crescita del fatturato per il settore delle PR.

Esaminiamo alcuni dati dal PR Council, l’associazione di settore americana: il 70% delle imprese del settore è cresciuta in termini di fatturato rispetto al 2013; la crescita media per agenzia è stata del 10%; ben il 43% delle imprese si aspetta budget più elevati nel 2015, mentre solo il 4% prevede una loro diminuzione.

Rispetto ai servizi offerti, ci tengo a evidenziare che il 19% del fatturato del settore deriva da attività di Pubblic Affairs, mentre le attività di comunicazione corporate costituiscono il 18% del fatturato. Negli Stati Uniti il settore sta continuando ad attrarre nuovi talenti: il 63% delle agenzie ha assunto nel 2014 e il 65% delle aziende prevede di aumentare le assunzioni nel primo trimestre del 2015 rispetto allo stesso trimestre del 2014. [Fonte: PR Council, PR’s Growth Spurt Continues–A Look at the Council’s Latest Data, 11 febbraio 2015]

Come abbiamo detto, il panorama dei media è cambiato e di conseguenza sta evolvendo anche il mestiere delle pubbliche relazioni: stanno emergendo chiaramente 3 percorsi della professione, le Traditional PR, le Advocacy PR e le Social Media PR.

Nel contesto delle Public Relations tradizionali, che si identificano essenzialmente con le Media Relations, assistiamo da anni ad una riduzione dei compensi e della durata dei contratti, mentre le redazioni - che si compattano per ridurre i costi - hanno sempre più bisogno di appoggiarsi agli uffici stampa per trovare nuove storie e insight.

Le Advocacy PR puntano invece non solo ai media, ma anche a opinion leader e think tank con contenuti e key message accurati e ben documentati per creare consenso e trasformare in promotori di una causa o di un’organizzazione i loro stessi stakeholder. Un lavoro di documentazione e mappatura tale da rendere spesso le Advocacy PR appannaggio solo delle grandi aziende.

Infine, nello scenario delle Social Media PR, l’approccio prevalente è purtroppo di tipo pauperistico, con organizzazioni e agenzie che tendono ad affidarsi al do-it-yourself o a risorse scarsamente qualificate. Proprio in questo ambito invece i professionisti delle PR possono dare un contributo importante per contenere i rischi della visibilità social e tutelare la reputation delle organizzazioni. [Fonte: Forbes, The Future of Public Relations - Three Forks in the Road, 9 dicembre 2014.]

Vorrei ora evidenziarvi brevemente due trend di comunicazione che hanno un impatto non trascurabile sulle Relazioni Pubbliche.

Innanzitutto, collegandomi a quanto in parte già analizzato, vorrei fare un riferimento all’estrema connettività in cui si trovano gli individui tra loro e, sempre più, anche con gli oggetti (Internet delle cose, tecnologia indossabile): una condizione che – come vedevamo in precedenza – mette a portata di mano di tutti, dovunque si trovino, tutte le soluzioni di acquisto, di ricerca di informazioni e di intrattenimento che possano richiedere. E che al contempo rende disponibile una quantità di dati vastissima su abitudini e preferenze dei consumatori (big data).

In seconda battuta, i consumatori chiedono sempre più di capire la cultura e le caratteristiche delle organizzazioni che vengono loro raccontate, in una parola il loro capitale intangibile: elementi come l’autenticità, la trasparenza, la leadership e anche l’oggetto sociale dell’azienda devono essere quindi sempre più presenti nella sua comunicazione. [Fonte: WPP, The 5 C’s of Communication Trends for 2015, 2015]

Vediamo ora i singoli comparti di comunicazione.

Dopo 5 anni consecutivi di calo, il 2014, complice anche EXPO, segna finalmente un’inversione di tendenza nel mercato degli eventi: il volume di spesa complessivo è di 785 milioni di euro, con un incremento del 2% rispetto al 2013, che si era chiuso a 768 milioni di euro. Le previsioni di spesa degli operatori per i prossimi 2 anni sono ambiziose, nell’ordine del 1.033 milioni di euro all’anno.

Il mezzo inoltre sembra consolidarsi: già l’anno scorso si era visto che gli eventi nel nostro comparto sono uno strumento sul quale concentrarsi in misura considerevole e crescente. Nel 2014 sono ulteriormente diminuite le aziende che non organizzano eventi: pensiamo solo che, dal 2006, queste sono passate dal 94% al 46% dello scorso anno, mentre solo il 36% ha ridotto la spesa su altri mezzi per poter organizzare eventi. [fonte: AstraRicerche, Monitor sul Mercato degli Eventi 2014, novembre 2014]

Per quel che riguarda le sponsorizzazioni, non disponiamo ancora dei dati del mercato italiano per il 2014 - che era atteso in crescita per la prima volta dopo 5 anni di calo.

Le proiezioni a livello globale sono tuttavia positive, con un incremento degli investimenti in sponsorizzazioni del 4,1% nel 2014 rispetto all’anno precedente e una previsione di aumento analoga per il 2015 rispetto al 2014. In questo quadro, nel 2015, i Paesi europei aumenteranno i loro investimenti in sponsorizzazioni solo del 3,3% (il dato più basso su scala mondiale), ben superiore però all’incremento del 2,1% che si è registrato nel 2014 rispetto all’anno precedente. [Fonte: IEG, Sponsorship Spending Review, 6 gennaio 2015.]

Un dato molto importante per il nostro settore è la fiducia che gli italiani ripongono nelle informazioni trovate online: il 69% la ritiene la fonte più affidabile di informazioni su aziende e persone, contro una media europea del 53%, e contro una fiducia del 54% degli italiani nei mezzi tradizionali. [Fonte: Edelman, Trust Barometer Italia, 24 febbraio 2014.]

Da questo punto di vista è molto interessante la ricerca condotta da TripAdvisor con Ipsos, che rivela come i gestori di hotel considerino prioritario migliorare la reputazione online delle strutture da loro gestite. Il 60% degli intervistati dichiara che nel corso del 2015 investirà nell’ORM più di quanto speso nel 2014 - e solo l’1% dichiara che spenderà meno. [Fonte: TripAdvisor e Ipsos, TripBarometer 2015 (US) – Global Travel Economy, maggio 2015]

Infine, segnali interessanti giungono anche dal mercato della pubblicità: nel 2014, gli investimenti hanno chiuso a -2,5%, il calo più basso degli ultimi quattro anni. Il 2014 si è quindi confermato come un anno di transizione e di stabilizzazione del mercato, che sembra quindi avviato ad una ripresa ma su livelli di investimento ben più contenuti rispetto a quelli registrati negli Anni Duemila. Il 2014 si è chiuso infatti a quota 6,2 miliardi di euro; in termini di valori reali e nominali, si tratta degli stessi di fine anni ’90.

Guardando all’andamento dei singoli mezzi, l’unico a far registrare numeri in crescita nel 2014 è internet (+2,1%), la cui diffusione è aumentata del 7,6% se consideriamo le categorie digital non monitorate abitualmente (Search Adv, Social Adv, Video Youtube, Classified). [Fonte: Nielsen, La Pubblicità nel 2014, 11 febbraio 2015.]

Il miglioramento registrato nel 2014 si consolida nell’andamento del I quadrimestre 2015, che registra una riduzione degli investimenti più contenuta rispetto a quella roscpmtrata nello stesso periodo dell’anno precedente: -2,3% rispetto al -3,6% del 2014 e addirittura al -18,7% del I quadrimestre 2013.

Rispetto al I quadrimestre 2014, si contrae il calo della stampa, sia quotidiana che periodica, si consolidano Radio, Outdoor e Transit, mentre calano la TV e, fortemente, l’Out of Home TV L’investimento internet conosce invece una contrazione, come avvenuto nel corso del primo quadrimestre 2014. [Fonte: Nielsen, Il mercato pubblicitario a aprile 2015, 10 giugno 2015.]

Numeri significativi, benché non tutti con il segno “+” davanti, che confermano quei timidi segnali di ripresa più volte richiamati quest’oggi. Mi piace ribadire, dunque, con ferma convinzione che come associazione abbiamo intrapreso la strada giusta verso quel processo di continuo rinnovamento necessario e inevitabile per un corpo intermedio come il nostro, in un settore che, mi ripeto anche in questo caso, deve – e sottolineo deve – riuscire ad avere uno sguardo di insieme sulla professione, che porti sempre più verso una comunione d’intenti e obiettivi.

Infine – e concludo – permettetemi di sottolineare con un pizzico d’orgoglio la capacità dimostrata da questa organizzazione di tenere la barra a dritta anche nelle lunghe fasi turbolente e di transizione degli ultimi anni. Cambiando pelle, ma senza snaturarci, continuiamo ad attrarre un numero di iscritti sempre maggiore che ogni giorno riconoscono fiducia non solo alla nostra capacità di rappresentanza, ma anche a quel processo di crescita e miglioramento collettivo che si realizza grazie al continuo confronto che avviene al nostro interno nonché ai feedback che ci provengono dal mondo esterno, sia esso società civile, media o istituzioni.

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