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La comunicazione alla sfida del NIMBY

17/09/2015

Sergio Vazzoler

Se la possibile introduzione dell’istituto del Dibattito Pubblico nell’impianto legislativo italiano aveva fatto sperare un passo in avanti nella gestione del rapporto fra infrastrutture, ambiente e consenso, una recente sentenza del TAR del Lazio ha riportato alla ribalta la sindrome NIMBY. Il commento di Sergio Vazzoler.

 

Una recente sentenza del TAR del Lazio ha riportato alla ribalta la sindrome NIMBY (l’ormai consolidato fenomeno che rappresenta l’opposizione locale a qualsiasi nuova infrastruttura o opera sul proprio territorio).

Prima di analizzare i fatti, facciamo un passo indietro, anzi due.

Sono passati due anni da quando in un talk al Salone della CSR e dell’innovazione sociale organizzato da Ferpi, il magistrato della Corte dei Conti, Massimiliano Atelli, denunciava il pericoloso stallo nell’affrontare i rapporti tra infrastrutture, ambiente e consenso. Queste le parole di Atelli pronunciate allora: “Occorre introdurre e regolare un confronto tra tutti i soggetti interessati dalla realizzazione di un’opera in modo che la crescente diffidenza che investe istituzioni, aziende e persino la scienza, possa essere superata tramite più informazione, comunicazione e ascolto delle buone ragioni di ciascuno”. La traduzione pratica era rappresentata dall’introduzione dell’istituto del Dibattito Pubblico anche nell’impianto legislativo italiano, dopo decenni di vita in Francia e altri Paesi del mondo. Ebbene, due anni dopo, non solo tale istituto è rimasto lettera morta ma il “vuoto” è stato ora riempito dal TAR del Lazio. Così come se lasci una cava vuota, prima o poi qualcuno ci butta un tir di rifiuti illegali, analogamente l’assenza di regole al passo con i tempi ha prodotto questa sentenza che può diventare un (assai insidioso) precedente: in parole povere il tribunale amministrativo ha respinto il ricorso di un’impresa privata che si è vista prima autorizzare un impianto di cremazione dal Comune di Borgorose, in provincia di Rieti, per poi subire la marcia indietro dalla stessa amministrazione comunale e negare così il via libera al progetto. Ma il “diavolo” sta nelle motivazioni della sentenza del TAR: tra queste, infatti, si annovera “la manifestazione da parte della popolazione del comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione”.

Al di là del fatto che non si capisce come possa essere misurata l’opinione di una intera comunità (o della sua presunta maggioranza), il provvedimento crea un “salto” davvero azzardato in un campo da gioco già da tempo reso impraticabile dai veti, dal balletto di competenze e dall’assenza di strumenti di legge orientati alla comunicazione e condivisione dei progetti e dei relativi iter.

La rivista on-line Formiche, sempre attenta a queste dinamiche, ha ospitato le analisi al nuovo scenario creato da questa sentenza. Proprio Massimiliano Atelli ricorda come la comunicazione sia fondamentale e come, di conseguenze, occorra urgentemente “introdurre per legge e in modo chiaro e lineare il principio base del ‘parliamone prima’ che comporta disponibilità e capacità di ascolto preventivo della comunità, per sapere prima, e non dopo, se è d’accordo o no”. Non la pensa così il Presidente di Assoelettrica, Chicco Testa, che sostiene l’inutilità di una nuova legge in quanto “se io voglio aprire un’attività e ottengo una ‘dichiarazione di via’ che mi dice che posso iniziare, la inizio e basta. Non è che siccome non piace a qualcuno non la posso fare”. Infine il punto di vista del comunicatore: Gianluca Comin, già Presidente Ferpi, inquadra così l’unica possibile via d’uscita: “se la certezza del diritto ha le armi spuntate dovremo necessariamente cercare la soluzione nella capacità delle aziende e delle amministrazioni di costruire consenso preventivo, di condividere la progettazione ai suoi primi passi, nell’usare la comunicazione con le stesse tecniche utilizzate dagli antagonisti”. Una sfida, conclude Comin, che “richiederà sempre più professionisti di esperienza”.

E qui sta il “nodo” che ci investe come comunità professionale: a che punto siamo con la cultura della comunicazione territoriale (che ha caratteristiche ben distinte dalla comunicazione corporate) nelle organizzazioni pubbliche e private? E quanto è diventato prioritario l’ambito della costruzione di valore condiviso in ambiti complessi per le associazioni di categoria (penso innanzitutto a Confindustria e alle Camere di Commercio)? L’impressione è che siamo molto distanti dall’obiettivo: a prevalere, infatti, è  ancora un’impostazione comunicativa fondata su una selezione accurata delle informazioni ambientali da condividere a discapito di una reale “apertura” al dialogo intorno a questioni ritenute vitali dalle comunità territoriali.

Al netto dei casi in cui tali scelte sono frutto di deliberata opacità, la maggior parte delle volte la motivazione a preferire il silenzio sembra risiedere nella fatica della struttura organizzativa delle organizzazioni pubbliche e private a interpretare le modalità di comunicazione utilizzate dai propri interlocutori e nel riuscire ad adattarsi al nuovo contesto: situazione che spesso fa pensare alle grandi armate militari sorprese in contropiede dalle azioni di guerriglia. Le conseguenze di una politica del silenzio in ambito ambientale appaiono particolarmente nefaste: si alimenta, così, un clima di sospetto (spesso ingiustificato) e di mancato riconoscimento delle imprese come interlocutore-chiave per lo sviluppo sostenibile del territorio, vanificando il patrimonio di esperienze, conoscenze e abilità tecniche e umane presenti nelle imprese e radicalizzando le posizioni nel dibattito pubblico.

 

 

 

 

 
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