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La comunicazione social che cambia la relazione fra imprese e consumatori

16/12/2015

Simonetta Pattuglia

I social hanno modificato profondamente il rapporto fra imprese e consumatori. Oggi il massimo valore prodotto per il cliente e gli stakeholder deriva da rapporti di collaborazione e di scambio, in un allargamento del concetto di prosumership. In questo mutato scenario, le nuove tecnologie rappresentano ormai non solo il primario strumento relazionale e comunicativo ma la soluzione per abbattere anche le barriere organizzative. Il contributo di Simonetta Pattuglia.

 

Relazioni e conversazioni, orientamento al consumatore, consumer-centrismo come testimonianza di un avvenuto cambiamento nei modelli mentali e nei sistemi di valori, sono terminologie attuali che aiutano i manager a capire come oggi il massimo valore prodotto per il cliente e gli stakeholder derivi da rapporti di collaborazione e di scambio, non di pura transazione, fra imprese, fornitori e consumatori in un allargamento del concetto di prosumership dai servizi a tutti i settori industriali.

La chiave di volta per un nuovo management e per una formazione all’altezza della complessità dei tempi è quindi quella di rispondere alle attese dei consumatori soddisfacendoli in un panorama globale che ha visto il progressivo omologarsi e il convergere delle preferenze degli individui e dei gruppi pur nell’estrema segmentazione di pubblici in nicchie, più esili dei precedenti segmenti ma sempre più diffuse e sparse.

La convergenza non sopraggiunge solo attraverso le applicazioni tecnologiche o nei mercati ma accade cognitivamente nelle menti e nelle interazioni sociali. Data la grande mole di informazioni da cui siamo attratti e raggiunti, abbiamo sempre maggiori incentivi a farci un’idea precisa su prodotti, brand e organizzazioni, attraverso lo scambio fra pari.

Il consumo diviene processo collettivo che si manifesta prima e oltre il do-ut-des economico e sicuramente si manifesta sui media, a livello informativo come di supporto al consumo e al suo vissuto post-esperienza. Il nostro nuovo capitalismo si occupa di mercati di esperienze, non più di meri prodotti e servizi, di lifestyle e di “consumo liquido”.

Le dinamiche di mercato di un antagonismo tradizionalmente concorrenziale non sono più adatte a spiegare i settori industriali odierni che hanno visto l’entrata in campo di un nuovo attore ovvero le community. Dal punto di vista delle organizzazioni, la definizione si applica a chi condivide un interesse particolare per alcuni interessi o per brand riconosciuti tali e basati su prodotti di successo che hanno saputo costruire attorno a sé una forte aura identificativa. Rover, Fiat 500, Ducati, Harley, Vespa Piaggio, Coca Cola, Nutella, Nivea insieme alle comunità che si riuniscono attorno alle maggiori celebrity della musica come dello star system e del luxury, sono gli esempi tipici.

La brand community risulta pertanto composta dal cliente attuale e prospettico, dal prodotto, dal brand e dal marketer-comunicatore: essi siedono assieme entro il perimetro semantico, organizzativo, relazionale, comunicativo e mediale delle comunità.

Le comunità si sono nel frattempo trasformate in “virtuali”, nell’irrilevanza della localizzazione geografica, condividendo capitale sociale di rete, di conoscenza e comunione, partecipando attraverso desideri, intenzioni collettive, comportamento coerente e organizzandosi attorno a stili di vita, attività ed ethos del brand.

Le persone sono insomma oggi “affamate” di senso di connessione. Si tratta del nuovo sentirsi “insieme ma soli” ovvero meno isolati in quanto sempre connessi e coinvolti ma di fatto sempre più spaesati sino a giungere alla necessità – come succede ai bambini o ai dissociati psichici – di voler attribuire emozioni umane, e senso di legame emotivo, ai robot, pensiamo ai tamagochi e alle diverse forme di realtà aumentata.

Le organizzazioni facilitano, di conseguenza, le brand community anche attraverso i social media, in maniera diversa e con scopi diversi generando contenuti "co-creati".

Per le imprese, però, le brand community non sono un asset della corporate anche se un alleato importante: è assolutamente illusorio pensare di controllarle. Oggi, la comunicazione peer-to-peer ha riequilibrato le sorti di individui e community a fronte di imprese ed organizzazioni in generale attraverso gli user generated content, i consumer generated media come la co-creazione, come il crowd-(sourcing, funding, ecc), come con la “innovazione” sociale.

Per i processi aziendali, all’interno come nella relazione con gli altri elementi del sistema, relazione che deve essere innovativa e che deve applicare internamente le nuove conoscenze inglobate nella nuova formazione, l’organizzazione deve essere reattiva e capace di gestire ascoltando costantemente tutti i suoi stakeholder.  Le nuove tecnologie rappresentano ormai non solo il primario strumento relazionale e comunicativo ma la soluzione per abbattere anche le barriere organizzative nella dialetticità del rapporto fra impresa, ambiente competitivo e società.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2015 di Harvard Business Review Italia che ringraziamo per la gentile concessione.

 




Simonetta Pattuglia

Simonetta Pattuglia è Professore Aggregato di Marketing e Marketing, Comunicazione e Media nel Dipartimento di Management e Diritto dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. E’ Direttore del Master in Economia e Gestione della Comunicazione e dei Media e del Master in Marketing e Management dello Sport. Può essere raggiunta via email pattuglia@economia.uniroma2.it e seguita su twitter @SPattuglia.

 

 

 

 

 
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