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Nello Stakeholder Engagement il futuro della comunicazione

05/05/2016

Toni Muzi Falconi

La figura del Chief Communication Officer è stata al centro dell’incontro dello scorso 3 maggio, organizzato da A.W. Page, Methodos, Edelman, Harvard Business Review Italia e The Ruling Companies in Assolombrarda. Il commento di Toni Muzi Falconi.

Tre ore di intensa discussione per una valutazione operativa dello “stato dell’arte” e delle dinamiche in corso in tutto il mondo in merito al ruolo dei  responsabili della comunicazione e delle relazioni pubbliche delle organizzazioni. Una sorta di “affresco globale” sulle sfide, le tendenze e (anche) “le mode” che ispirano e determinano oggi le loro ambizioni.

L’occasione è stata la Jam Session promossa  a Milano martedì 3 maggio dalla think tank Page Society, in collaborazione con Harvard Business Review Italia, The Ruling Companies Association, Edelman e Methodos per discutere del suo recente rapporto The New CCOO (che abbiamo qui presentato nei giorni scorso).

Centosettanta capi della comunicazione, vice capi con voglia di crescere, capi di agenzie e consulenti,  accademici, docenti e  studiosi. Da almeno 15 anni non vedevo tanta “bella gente” (come usa dire).

I primi tre relatori (Bolton, CEO della Page, lo svedese Edlund ex Shell e l’italiano Comin, ex Enel), sono stati presentati da Enrico Sassoon, direttore di HBR Italia e Presidente di the Ruling Companies e hanno sviluppato il senso delle rispettive esperienze. Il dibattito successivo che prevedeva, insieme a moltissime domande da un pubblico assai attento, anche interventi di Fiorella Passoni  di Edelman e Matteo Barone di Methodos, è stato moderato da uno straordinariamente efficace Giampaolo Azzoni dell’Università di Pavia.

In dieci minuti finali e improvvisati ho tentato di tirare qualche somma dicendo:

  • un dibattito così ricco, stimolante e variegato non si era mai visto in Italia e ha prodotto una forte accelerazione nella maturazione e nella consapevole crescita culturale dei partecipanti. Questo, in assenza delle oltre dodici associazioni professionali che si richiamano in qualche modo alla comunicazione e alle relazioni pubbliche. Un segnale della inutilità in questo contesto storico delle  associazioni di rappresentanza?  Francamente non credo, ma viene da pensare alla inutilità dei chiacchiericci e alla improbabilità delle affannose ricerche in corso di persone anche improbabili in cerca di non si sa quale status;

  • già dieci anni fa al congresso Euprera di Milano si avvertiva il rischio che la presenza del CCO nei comitati esecutivi dell’organizzazione potesse produrre la perdita di autonomia, considerata peraltro necessaria dallo stesso Page Report di oggi e ripetuta come una litania dai diversi relatori. Già: una contraddizione. Una contraddizione sanabile, certo, ma soltanto se e quando i  CCO sanno essere benvenuti e accettati nei comitati esecutivi proprio perché autonomi. E non solo dal CEO, ma da tutti i colleghi della c-suite. Tra le due alternative, allineamento dei CCO con il pensiero dominante o autonomia di pensiero e di azione per l’organizzazione è verosimilmente più utile la seconda. Meglio ovviamente una cooptazione purché e perché autonoma, ma non sempre è possibile;

  • oggi è diventato politicamente corretto proclamare che il cambiamento nelle organizzazioni si attua con una comunicazione capace di abbattere i cosiddetti silos. Ma è soprattutto necessaria una visione critica e “situazionale”. E’ un argomento che non vale per tutte le organizzazioni e neppure per tutti i settori e comunque vale purché lo snellimento delle barriere fra le funzioni e le linee non diventi un ennesimo nuovo feticcio in attesa del prossimo;

  • la parola chiave dell’incontro è stata “stakeholder engagement” e, come ha correttamente segnalato Azzoni, il Page Report pecca nel sottovalutare il valore, anche propedeutico, culturale e politico, del conflitto: interno alla direzione, con e fra i collaboratori, con e fra gli altri stakeholder (fornitori, azionisti, distributori, clienti, concorrenti, regolatori, influenti sul discorso pubblico…). A questa obiezione Roger Bolton ha giustamente replicato che il conflitto è ‘insito’nella,  e "consustanziale" alla stessa cultura organizzativa. Bene. Il problema è che essendo una parte consistente delle leadership o steward/ hostesship (sempre per essere politically correct…) e della consolidata cultura che vede la comunicazione è diretta verso e non con gli altri, si finisce per considerare gli stakeholder (collaboratori, consulenti, fornitori, azionisti, regolatori, comunità locali…..) come audience indistinta che l’organizzazione si propone di trasformare in attivisti (il concetto di Page di “advocacy at scale”), quasi che i benefici (?) del singolo stakeholder dall’essere in qualche modo "associato" all’organizzazione comportino anche il diritto di quest’ultima di pretenderne la militanza. E’ chiaro che questo modo di pensare rivela un sostanzioso vizio culturale: l’organizzazione ha sicuramente il diritto e soprattutto il dovere di sforzarsi di migliorare le relazioni con i suoi stakeholder, se attentamente identificati e ascoltati, e di decidere con quali intrattenere un “fidanzamento” (engagement). Ma non può certamente evitare (per ragioni molto evidenti di efficacia) il dialogo e il coinvolgimento (involvement)  con gli stakeholder che si propongono di ostacolare o ritardare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti e  neppure con coloro (stakeholder potenziali) che se resi consapevoli degli obiettivi perseguiti dall’organizzazione sarebbero interessati a condizionarne in un modo o nell’altro l’esito.


Continuons le debat…

 
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