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La libertà corre sul web

31/10/2011

_Digital Democracy_ è l’organizzazione non profit fondata nel 2008 da due americani poco più che ventenni. In occasione dei seminari promossi da Ferpi a Roma il 15 e 16 settembre, _Prima Comunicazione_ ha incontrato i due giovani relatori, _Mark Belinsky_ ed _Elizabeth Ghormley,_ che raccontano come la tecnologia possa essere strumento di partecipazione politica e di decisione democratica nei paesi in via di sviluppo.

di Jean-Luc Giorda
Da ragazzi abbiamo sognato tutti di cambiare il mondo. A pochi è capitato di riuscirci. O almeno di provarci seriamente. Mark Belinsky ed Elizabeth Ghormlev sono tra questi fortunati. Anche se la fortuna c’entra relativamente poco. A parte quella, evidente. di avere 28 anni. Che pure è toccata una volta nella vita a ognuno di noi.
Difficile non pensarci mentre li guardo mangiare di gusto i ravioloni e le lasagne, una domenica sera di fine estate, in un’affollata trattoria di Campo de’ Fiori, a Roma: lui con uno sguardo brillante ed entusiasta, sotto i capelli ricci e il naso importante che rivelano l’origine: russo, figlio di immigrati negli Usa quando ancora l’Unione sovietica era l’impero del male’; lei americana bionda, occhi azzurri e capelli lunghi e lisci, lineamenti delicati che però non riescono a nascondere la sua determinazione. Mark è fondatore, con Emily Jacobi, e presidente di Digital Democracy: Elizabeth è direttore sviluppo della stessa organizzazione non profit. Che si dà come mission “educare i cittadini del ventunesimo secolo” e “dare alle comunità marginalizzate il potere di usare la tecnologia per costruire il loro futuro”. In un mondo dove ormai il numero dei cellulari è di 5 miliardi su 7 miliardi di abitanti, la lotta per lo sviluppo civile e i diritti umani deve parlare digitale.
Idealisti? Solo in parte. Visionari? Sì, nel senso che hanno una vision innovativa e di grande impatto. Manager di successo nel non profit sicuramente, visto che Digital Democracy rappresenta un’affermazione anche individuale per i membri del team – cinque persone: Belinskv, Jacobi, Ghormlev, Emilie Reiser e Liz Hodes – composto da professionisti provenienti da diversi settori e ognuno con una diversa specializzazione. Finora il lavoro di tutta la squadra è stato completamente volontario e l’organizzazione, nata nel 2008, nel 2010 ha raccolto donazioni in denaro per circa 30mila dollari e in servizi e beni per oltre 90mila dollari (Digital Democracy, 2009-2010 Annual Report), acquistando un’autorevolezza invidiabile sia in campo accademico, grazie a ricerche rigorose, sia in campo politico nazionale e internazionale: dal Congresso degli Stati Uniti al dipartimento di Stato, alle varie organizzazioni non governative all’Onu.
A Roma Belinsky e Ghormley sono stati relatori il 15 settembre, insieme a Toni Muzi Falconi, alla sesta edizione del corso in Public Diplomacy per 40 giovani diplomatici, realizzato dalla Ferpi, la federazione dei professionisti che operano nelle relazioni pubbliche, in collaborazione con l’Istituto diplomatico della Farnesina. E il 16 hanno tenuto un seminario per manager programmato dalla Commissione aggiornamento e specializzazione professionale (Casp), dal titolo ‘Organizzare e governare il digitale’.
Durante il nostro incontro parlano e s’infervorano, spiegando tra un boccone e l’altro quel che stanno cercando di fare, e come. “Dire che la rivoluzione digitale sta cambiando il mondo è una cosa scontata”, spiega Mark. “Il punto cruciale è che la diffusione della Rete e dei telefoni cellulari anche nei Paesi meno sviluppati offre una possibilità senza precedenti per dare voce, potere, organizzazione alle comunità finora rimaste ai margini dello sviluppo, sia economico sia politico. Ma non basta mettere a disposizione la tecnologia, si tratta di insegnare a usarla. E anche di mostrarne i limiti e i pericoli”.
Che non sono gli stessi in tutte le situazioni: Digital Democracy, ad esempio, lavora in Birmania/Myanmar dove l’ostacolo principale è il regime repressivo, e la cosa principale è insegnare agli attivisti per i diritti umani come scambiarsi informazioni, e farle uscire all’esterno, senza rischiare di essere individuati e arrestati; mentre in Egitto o in Iraq, dove la transizione alla democrazia rischia di passare sopra la testa della gente, il compito principale di Digital Democracy è favorire la discussione politica allargata, il voto, la partecipazione; o ancora, in regioni devastate da disastri naturali, come nella Haiti del dopo terremoto, il suo obiettivo è ricostruire legami sociali e regole civili.
Mark ed Elizabeth. detta ‘Biz’, non hanno un’idea di come dovrebbe essere il mondo, non hanno in mente un sistema sociale o economico preciso. Sono post ideologici, oltre che nativi digitali. Ma un concetto lo hanno chiaro: devono essere le singole persone e le comunità locali a poter scegliere quello che vogliono, a dire la loro sulle decisioni che determinano le loro vite. In astratto, può sembrare semplice democrazia. Calata nella realtà del nostro mondo, dove persino in Occidente la democrazia talvolta è solo formale, è una rivoluzione. Letteralmente: perché l’attività di Digital Democracy ha avuto, tra le altre cose, un ruolo non secondario nei cambiamenti avviati in Medio Oriente e battezzati dai media ‘primavera araba’.
La lista dei risultati nei primi quattro anni di vita dell’organizzazione è impressionante. Digital Democracy ha condotto ricerche e interventi diretti in più di 22 Paesi in quattro continenti, dai Caraibi all’Africa subsahariana, dal Sudest asiatico all’America meridionale. E dà molta importanza alla comunicazione istituzionale: i due cofondatori, Mark Belinsky ed Emily Jacobi (direttore esecutivo), e il resto dello staff viaggiano continuamente da un Paese all’altro non solo per seguire i vari programmi in corso di realizzazione, ma anche per partecipare a convegni e conferenze internazionali, tenere seminari nelle università, presentare e promuovere il loro lavoro nelle sedi internazionali (“è parte dello sforzo per dare voce ai nostri partner sul terreno”) o presso i governi. A cominciare da quello degli Stati Uniti: da quando è arrivata Hillary Clinton al dipartimento di Stato, Washington ha uno dei più estesi e avanzati programmi al mondo per l’uso della rivoluzione digitale nella ‘public diplomacy’. Che però spesso, a parte il bel nome e l’uso di Facebook e Twitter, rischia imbarazzanti somiglianze con la vecchia propaganda della Voice of America. Questo non rappresenta un problema per Digital Democracy? “Noi abbiamo un approccio pratico, basato sulle persone e sui dati concreti che raccogliamo sul campo, lavorando a contatto delle comunità”, risponde sicura Elizabeth Ghormlev. “Questo significa che se il programma messo a punto da un’istituzione governativa è compatibile con quello che il nostro team sul terreno sta realizzando, non ci sono problemi a collaborare. Altrimenti seguiamo la nostra strada, lavoriamo con i nostri mezzi”.
I mezzi non sono ancora molti, forse, ma sono potenti. Non perché quelli di Digital Democracy credano nel potere salifico di Internet. Anzi. Sembrano lontani anni luce dall’entusiasmo acritico nei confronti della Rete. “La tecnologia non basta a produrre il cambiamento, è solo il modo in cui la gente la usa a modificare le situazioni”, sostiene Mark, che nel gruppo è il vero tecnologo, laureato alla Johns Hopkins University in sociologia e tecnologia dei media e con cinque anni di esperienza in giro per il mondo nell’ideazione di piattaforme tecnologiche e programmi per lo sviluppo sociale e civile: “Non importa in realtà con che mezzo veicoliamo l’informazione, che sia Twitter, una rete di sms, un sito web o che altro. La scelta può dipendere dalle circostanze, dalle opportunità e dai mezzi a disposizione. Quel che importa è l’informazione in sé, il dato grezzo. E poi contano l’accessibilità di questo dato, gli strumenti critici per decifrarlo e la possibilità di condividerlo con altri attraverso linguaggi comuni”.
Ragionando su questa ‘teoria del cambiamento’ Belinsky e Jacobi – un’ex ‘bambina prodigio’ del giornalismo Usa, reporter da Cuba a 13 anni – hanno sviluppato quello che chiamano il ‘ciclo della democrazia digitale’: l’alfabetizzazione digitale, l’organizzazione digitale e la governance digitale. A Ghormlev, un master in pr e comunicazione aziendale e un passato d’investigatrice e mediatrice culturale per i Bronx Defenders, storica organizzazione che fornisce aiuto legale ai giovani del famoso quartiere newvyorkese, piacciono gli esempi concreti. E ne ha subito uno a disposizione: “Ad Haiti, dopo il terremoto, nei campi dei rifugiati è esplosa la violenza sulle donne. Abbiamo lavorato con le vittime per creare un servizio di emergenza telefonico medico, psicologico e legale per le donne in un Paese dove non esiste un 9l 1 (il nostro 113: ndr). Ma abbiamo anche insegnato a giovani e donne a scattare foto e metterle on line, ad aprire blog e a dare notizie via Twitter, e questa è alfabetizzazione digitale. II passo successivo è stato raccogliere dati e creare data base, dare vita a comunità on line e comunicare via Skvpe, Fornire tecnologie e supporto agli attivisti, e questa è organizzazione digitale. La governance deriva dall’insieme di tutti questi elementi, e si traduce nella capacità dei cittadini di controllare l’andamento e la regolarità delle elezioni da soli, di segnalare situazioni e condividere dati con il governo locale, di far sentire la propria voce all’estero e ottenere attenzione e appoggi”. Ancora Belinsky: “Torniamo all’importanza del dato, dell’informazione: democrazia è sapere quanto spende il governo per la mia scuola di quartiere, e magari poter chiedere perché quella dei quartiere accanto ha il doppio dei fondi. Se non ho accesso a questi dati di base, democrazia diventa una parola vuota. Diventa solo decidere se credere o no a quello che mi dicono, ma che io non posso verificare”.
Da qui la necessità assoluta della trasparenza, sia da parte dei governi sia da parte delle organizzazioni. “La trasparenza è la nuova narrativa”, dice ancora Ghormlev, che ha indubbiamente il bernoccolo della comunicazione. “Se sono il possesso e la condivisione delle informazioni a caratterizzare la democrazia del ventunesimo secolo, ne consegue che occultare o falsare dei dati diventa un fatto estremamente grave perché Iede un diritto fondamentale degli individui e della comunità”. Anche per questo motivo, oltre che per mantenere bassi i costi, Digital Democracy non privilegia nessuna tecnologia e nessuna piattaforma e usa quasi esclusivamente software open source, o con licenza Creative Commons (che permette di modificare e ridistribuire i programmi purché si dia credito agli autori e non lo si faccia per fini di lucro). “Con il software libero, chi lo usa può vedere il codice, sapere che cosa fa esattamente e come, modificarlo secondo le sue esigenze, sapere chi l’ha scritto, chi c’è dietro”, spiega Mark. “Anche questo è trasparenza”. Come lo è l’esempio che dà la stessa Digital Democracy pubblicando scrupolosamente i nomi dei donatori e dei finanziatori nel suo rapporto annuale: da giganti come Google e Nokia a più di 250 donatori individuali, indicando esattamente quali beni e sevizi sono stati forniti. L’ufficio di New York, ad esempio, è una donazione della Bill Hopkins Media, la società cinematografica e scuola di cinema dell’omonimo regista e sceneggiatore.
Ma le donazioni sono sufficienti a finanziare i progetti? E come vengono gestiti i rapporti con i grandi donatori? “Certo, servirebbero più fondi, ma questo vale per chiunque lavori nel non profit”, risponde Ghormlev. “Finora siamo riusciti a portare avanti il lavoro sul campo, che per noi resta la cosa più importante. Ci finanziamo anche con le ricerche, i seminari, le consulenze che facciamo per le università, le scuole, le aziende. La trasparenza resta il modo migliore per gestire questi rapporti: abbiamo un ‘board or advisors’ di 13 personalità indipendenti, di diverse nazionalità, e diamo conto al pubblico di ogni dollaro ricevuto e di come viene speso. Dal punto di vista del riconoscimento fiscale, fino all’anno scorso ci ha sponsorizzato l’Institute for Multi-Track Diplomacy, fondato dall’ambasciatore John W. McDonald. Ma ora abbiamo presentato domanda per essere riconosciuti autonomamente nel regime fiscale delle organizzazioni non profit statunitensi”.
Mark ed Elizabeth vivono in un mondo già diverso dai mio, dove New York, Parigi, Londra, l’Occidente insomma, erano casa e il resto avventura. “Sono felice di questo viaggio”, sorride Mark, pensando al volo low cost che lo attende il giorno dopo alle 6 del mattino. “In pochi giorni ho visto tre delle città che amo di più: Tbilisi, Roma e Amsterdam”. Li guardo camminare verso qualche ora di sonno, inciampando sui sampietrini romani. E penso che il mondo non cambia sempre in peggio.

Politica digitale? Si fa così
Mark Belinsky ed Elizabeth Ghormley spiegano nei loro documenti e nei loro seminari i principi chiave per impegnarsi nell’azione sociale e politica con gli strumenti dell’era digitale. Tentiamo di riassumere in questo decalogo la ‘ricetta’ da seguire per imitare Digital Democracy.
1. La tecnologia è solo uno strumento: prima verificare sul campo le necessità, le opportunità, gli ostacoli; poi scegliere i mezzi più adatti per affrontarli, senza legarsi a una piattaforma o a uno strumento preferiti.
2. L’attenzione deve essere concentrata sulle persone e sulle comunità locali: il programma va costruito insieme a loro e costantemente ridisegnato secondo i feedback ricevuti, favorendo sempre l’interazione e la creazione di reti sociali.
3. L’informazione è la chiave del cambiamento. Raccogliere, archiviare, distribuire dati significa mettere potere nelle mani della gente.
4. L’informazione è tanto più potente quanto più rispetta gli standard qualitativi: i dati prodotti devono essere accurati, completi, di prima mano, recenti.
5. La facilità di diffusione, riproduzione ed elaborazione dell’informazione è cruciale. Per questo tutti i dati devono essere liberi da copyright, diffusi in formati non proprietari ed elaborabili facilmente con programmi standard.
6. La trasparenza è essenziale alla democrazia. Si deve pretenderla dai governi, devono rispettarla l’attivista e l’organizzazione non profit: dalla preferenza per il software open source alla tracciabilità delle donazioni, alle relazioni con istituzioni e governi.
7. Autonomia e indipendenza non significano ostilità verso le istituzioni o i programmi governativi: con i governi si può trattare e collaborare, purché siano chiari i ruoli, gli obiettivi, e sia rispettata la trasparenza.
8. La comunicazione esterna è una parte Importante del lavoro. Serve per sollecitare attenzione nei media per le situazioni locali, per interconnettere le comunità e gli attivisti locali con le istituzioni internazionali, per sollecitare l’interesse di possibili finanziatori.
9. Il contatto con gli attivisti, i beneficiari dei programmi, le comunità locali deve essere quanto più possibile diretto. In campo internazionale, meglio operare dove si hanno le competenze linguistiche e le relazioni necessarie.
10. È importante strutturare e dimensionare correttamente dall’inizio l’organizzazione, anche dal punto di vista legale e fiscale. Quando mancano competenze o risorse, può essere utile appoggiarsi a organizzazioni non profit più grandi che assicurino l’appoggio necessario.
Tratto da Prima Comunicazione
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