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Strategie di comunicazione della difesa nel processo penale

16/11/2011

Continua il dibattito sulle Litigation PR. In esclusiva presentiamo la relazione che l’avvocato penalista _Ennio Amodio_ ha presentato durante l’incontro organizzato a Roma lo scorso 27 ottobre da Reset in collaborazione con Ferpi e ANM e dedicato al caso di Amanda Knox.

Le litigation Pr, le attività di relazioni pubbliche e comunicazione che accompagnano le fasi di un procedimento giudiziario, sono una delle sfide più attuali per la nostra professione. Quale il ruolo che questa branca delle relazioni pubbliche ha avuto nel processo di Perugia? Del ruolo del relatore pubblico tra accusa, difesa e collegio giudicante, si è discusso a Roma lo scorso 27 ottobre.
di Ennio Amodio
L’azione comunicativa del difensore: esperienze sul campo e insegnamenti della “nuova retorica”
E’ una duplice esperienza ad alimentare le mie riflessioni sul modo in cui il difensore comunica ai media gli eventi processuali che coinvolgono il suo assistito.
Come avvocato penalista mi sono trovato a dover elaborare e mettere a punto, con i professionisti delle litigation PR, le strategie più funzionali a far capire all’opinione pubblica la posizione e gli argomenti difensivi di alcuni imputati trascinati sulla ribalta mediatica da indagini svolte nell’ambito di vari processi penali. Dalle vicende milanesi di Mani Pulite degli anni Novanta fino ai casi più recenti scaturiti dal default di Parmalat, ho dovuto affrontare problemi di risposta all’invasione della stampa e della televisione in sede processuale, con il proposito di trovare il modo appropriato di far emergere le ragioni della difesa a fronte dell’informazione robusta e di massiccia risonanza connaturale ad ogni iniziativa del Pubblico Ministero.
Ho così potuto toccare con mano quanto sia difficile raggiungere il giusto equilibrio, nel dialogo da instaurare con i media, tra sollecitazioni dell’imputato a chiarire tutto e subito per dimostrare l’infondatezza dell’accusa ed esigenze di adattamento ai tempi lunghi delle investigazioni coperte dal segreto. In questo lavoro si è rivelata insostituibile la presenza di un professionista della comunicazione capace di coniugare gli obiettivi della risposta mediatica con i limiti imposti dalla logica del processo penale.
Come studioso della giustizia penale ho invece acquisito una qualche familiarità con gli strumenti della persuasione mediante ricerche dedicate al modo di ragionare su fatti e norme. Tutti sanno che, a partire dal secondo dopoguerra del secolo scorso, si è sviluppata in Europa una riflessione filosofica che ha condotto a riscoprire la teoria della argomentazione movendo dal pensiero antico, così da fondare la nuova retorica, intesa come area culturale distinta dalla logica scientifica. Fuori dall’ambito del linguaggio delle scienze sperimentali, dominato da un carattere massiccio e necessitante tale da imporre la convinzione, c’è il mondo del discorso pratico che ha una sua autonoma dignità razionale. Si mira alla persuasione facendo valere le buone ragioni che sollecitano l’adesione ad una visuale, a un giudizio o un orientamento. Per Chaïm Perelman, il fondatore della nouvelle rethorique, nel discorso di tutti i giorni sui temi della morale, della politica e della vita pratica, si utilizzano argomenti volti a persuadere l’interlocutore, finalità tanto più importante perché non ingessata dalla forza cogente della logica formale, ma rimessa alle scelte fondate sui giudizi di valore.
Gli esperti di comunicazione sanno bene che il loro lavoro si muove su un piano in cui la rappresentazione di persone ed eventi si propone di rimuovere le incrostazioni e le coloriture deformanti che impediscono di leggere la realtà delle vicende sociali. La loro è una attività retoricamente orientata perché mira ad ottenere l’adesione dei destinatari del messaggio. Anche se probabilmente non c’è consapevolezza del modo di operare dei diversi argomenti sul piano sistematico quando vengono impiegati nelle attività di comunicazione.
Principi generali: l’uditorio del comunicatore; impatto ed efficacia del messaggio; la deontologia del difensore che comunica
Alla luce del rapporto tra argomentazione e comunicazione conviene fissare tre principi di base prima di enucleare alcune regole concernenti gli specifici problemi degli interventi a fini comunicativi del difensore in relazione al processo penale.
C’è anzitutto un primo principio che riguarda i destinatari delle azioni comunicative. Perelman insegna che ogni argomentazione è in funzione di un uditorio. E’ quindi necessario preliminarmente stabilire a chi si parla quando si vuol argomentare e quindi, per quel che qui interessa, comunicare. Non è solo un problema di individuazione dei destinatari del messaggio. Certo l’uditorio va concepito non come una entità astratta, ma come il soggetto o il gruppo degli appartenenti ad un segmento della pubblica opinione la cui adesione si vuole sollecitare. Al di là di questo, vengono in rilievo i canoni di adeguatezza e funzionalità tra strumenti e destinatari della comunicazione. Ciò che la nuova retorica raccomanda è proprio la duttilità nella scelta degli argomenti volti a persuadere uno specifico uditorio, il cui grado di sensibilità ovvero di ostilità deve essere preventivamente conosciuto.
Si possono verificare anche fenomeni di sdoppiamento dei piani del discorso. Se il messaggio è costruito dal difensore in modo da far conoscere che l’accusa è infondata, una particolare sottolineatura di aspetti che svelano l’anomalia delle forme usate dal pubblico ministero potrà mettere in evidenza che l’uditorio apparente è costituito dai lettori della stampa e dai telespettatori, mentre quello effettivo è rappresentato dai magistrati il cui operato si vuole censurare davanti al “tribunale dell’opinione pubblica” .
La sottovalutazione delle variabili conseguenti ad un possibile sdoppiamento dell’uditorio può creare gravi inconvenienti. E’ quanto mi sembra sia accaduto nel caso Amanda oggetto di questo seminario. Mentre non c’è dubbio che la PR firm americana, intervenuta per incarico della famiglia Knox, abbia fatto un ottimo lavoro in ambito statunitense, rimuovendo l’immagine colpevolista di una giovane donna spregiudicata e senza scrupoli, non mi pare possa dirsi la stessa cosa per i riflessi che la campagna mediatica ha avuto nel nostro Paese. Il pubblico italiano e forse anche gli stessi giudici di Perugia hanno avuto la sensazione di una strategia troppo aggressiva e persino irritante là dove si è percepito che è stato messo sotto attacco il sistema giudiziario italiano. E’ scattata insomma la sindrome della grande potenza che rivendica un primato di cultura giuridica rispetto alla giustizia penale italiana, considerata incapace di gestire in chiave di fair trial un caso giudiziario di grande risonanza.
Qui, insomma, l’agenzia di PR americana non ha capito che gli argomenti efficaci per l’uditorio statunitense erano invece controproducenti per l’uditorio italiano.
Da questo rilievo su può trarre spunto per enunciare un secondo principio. Qualsiasi forma di comunicazione va misurata in termini di impatto ed efficacia . Se, ad esempio, un comunicato stampa diffuso con cura viene ignorato dai giornali e dagli altri mezzi, è corretto concludere che il suo impatto è uguale allo zero. Poiché la comunicazione deve creare un ponte tra chi elabora il messaggio e i suoi destinatari, la mancanza di qualsiasi indizio di recepimento nell’area di arrivo segnala che il veicolo di trasbordo non ha funzionato.
D’altra parte, può però accadere che all’impatto effettivamente raggiunto non corrisponda un atteggiamento dell’uditorio conforme a ciò che si attendeva il comunicatore. Se il messaggio viene frainteso, respinto o utilizzato come spunto per una reazione negativa che sta agli antipodi di quella attesa, l’azione del comunicare si rivela inefficace.
Non è facile però accertare il grado di efficacia, almeno nell’ambito della informazione sui fatti processuali. Si tratta di capire fino a che punto vi siano stati cambiamenti nel sentire pubblico e nell’atteggiamento degli attori del processo penale. Certo, la sentenza è una buona cartina di tornasole, ma spesso è necessario avere riscontri nel corso del processo e solo gli orientamenti della stampa possono dare indicazioni per capire se il clima è cambiato.
Resta infine un terzo profilo che investe la posizione del difensore.
L’avvocato può utilizzare la comunicazione nell’interesse del suo assistito? Al riguardo non vi sono ostacoli sul piano dell’etica codificata. Anzi l’art. 18 c. II del Codice deontologico forense, approvato dal Consiglio nazionale forense nel 1997, stabilisce che il “difensore, con il consenso del proprio assistito e nell’interesse dello stesso, può fornire notizie agli organi di informazione e di stampa, che non siano coperte dal segreto d’indagine”.
Il difensore dell’imputato o della parte civile è dunque autorizzato a gestire in proprio i rapporti con la stampa ovvero a cooperare con i professionisti delle litigation PR al fine di predisporre le forme di intervento ritenute necessarie ad illustrare la posizione e gli argomenti difensivi del cliente.
Naturalmente, in ossequio alle norme civilistiche sul mandato, sia l’avvocato che il comunicatore sono tenuti a seguire le direttive del cliente, cui spetta l’approvazione di ogni azione mediatica collegata al processo. Né si può prospettare una alternativa, dal punto di vista del responsabile della agenzia di PR, tra istruzioni del cliente e disposizioni del difensore. Nel caso di divergenza tra le stesse, prevalgono ovviamente sempre le prime perché la parte processuale non soltanto è titolare del diritto di difesa, ma assume anche sul piano civilistico la veste di mandante legittimata a pretendere l’adempimento da parte del suo mandatario.
Certo, è possibile ipotizzare un conflitto di interessi quando il professionista PR abbia ricevuto l’incarico da una società per la quale svolge funzioni di amministratore la persona imputata nel processo penale e la linea difensiva di quest’ultima sia incompatibile con gli interessi della società. In questo caso il responsabile della comunicazione deve rinunciare al suo mandato, altrimenti dovrebbe rispondere per negligente adempimento dell’incarico.
La disuguaglianza delle parti nella azione mediatica relativa ad atti del processo penale
A questo punto mi sembra utile delineare alcune regole della comunicazione posta in essere dal difensore nel processo penale.
Intendo riferirmi ad enunciati fattuali che descrivono ciò che avviene nella pratica e non a formule a contenuto prescrittivo che esprimono direttive o consigli su come si deve comunicare nell’interesse dell’imputato. Potrebbe essere appropriato definirle regole empiriche per rimarcare che esse registrano la prassi della azione comunicativa così come è testimoniata dalla esperienza quotidiana.
La prima e forse anche la più importante di queste regole è quella relativa alla disuguaglianza delle parti nella comunicazione che assume ad oggetto le vicende del processo penale. Mentre persino una norma costituzionale consacra la parità tra accusa e difesa, nel codice di procedura penale e nel diritto vivente il pubblico ministero, quale parte pubblica che rappresenta gli interessi della collettività ai fini della repressione della criminalità, ha poteri di gran lunga superiori a quelli dell’imputato e della sua difesa. E tutto ciò si riflette anche sul piano del diverso grado di efficacia e di amplificazione dei messaggi che scaturiscono dalle vicende processuali.
E’ lo status di organo pubblico preposto all’esercizio dell’azione penale – la vera chiave del motore che avvia la macchina giudiziaria – a dare forza, credibilità e autorevolezza ai magistrati requirenti.
Basta pensare alla facilità con la quale tengono i rapporti con la stampa, che a volte li assedia per avere anche solo un frammento della notizia giudiziaria. I magistrati del pubblico ministero non hanno bisogno di attivarsi per comunicare ed anzi subiscono la pressione dei giornalisti i quali hanno fame di informazioni che gli inquirenti finiscono per concedere perché hanno interesse ad avere il sostegno dei media nell’inchiesta che stanno conducendo . Anche la polizia giudiziaria contribuisce a disseminare le notizie sulle vicende processuali, di solito muovendosi sulla base si autorizzazioni informali dei magistrati.
Ma c’è di più. Le Procure non hanno bisogno di confezionare comunicati o di convocare conferenze stampa perché il più delle volte parlano attraverso i loro atti, filtrati dai provvedimenti del gip. L’impatto e l’efficacia raggiungono i massimi livelli quando vengono pubblicati i provvedimenti di custodia cautelare, firmati dal giudice, ma densi di atti investigativi sapientemente selezionati dal pubblico ministero.
Frasi tratte da intercettazioni telefoniche, dichiarazione trascritte dai verbali di persone informate dei fatti, squarci degli interrogatori resi da altri indagati: tutto questo materiale nei processi di rilevanza mediatica viene incorporato nella richiesta dell’inquirente e finisce poi, mediante il taglia e incolla, nella ordinanza del gip nella consapevolezza che i media troveranno quel che cercano, anche al di là della stretta rilevanza processuale.
Di fronte a questo gigantismo dell’accusa, la voce del difensore finisce per farsi sentire in modo necessariamente flebile. Intanto l’avvocato non può certo fruire del quasi automatico flusso informativo che si instaura tra il pubblico ministero e la stampa, ma deve cercare il contatto con i giornalisti che non stazionano certo alla porta del suo studio. Inoltre i suoi interventi sono frenati da limiti oggettivi di due tipi.
Anzitutto la difesa non può fare lo show down delle prove a discarico perché, navigando nel buio del segreto investigativo, deve muoversi con prudenza e spendere il materiale probatorio di contrasto all’assunto dell’accusa solo nella fase finale delle indagini, quando l’inquirente ha reso conoscibili tutte le prove acquisite nel procedimento.
In secondo luogo, mentre il pubblico ministero ha piena libertà di attaccare l’indagato presentandolo nei suoi atti come se la sua colpevolezza fosse ormai accertata, l’avvocato deve presentare le ragioni del suo assistito senza punte di asprezza nei confronti dei magistrati sia per doveri deontologici, sia per tenere aperto il dialogo con chi continuerà ad essere il suo interlocutore.
Il confronto tra le parti contrapposte non lascia dunque spazio a dubbi: quella del difensore è una vis comunicativa zoppa.
La presunzione di colpevolezza dell’imputato nell’atteggiamento della stampa e la variabilità delle chances di efficacia comunicativa nelle indagini e nel dibattimento
La seconda regola empirica può essere così formulata: sul piano della comunicazione, almeno nel corso delle indagini preliminari, l’inquisito è presunto colpevole. Nella prassi si rovescia il principio costituzionale secondo cui l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva (art. 27 c.2 Cost.).
La cronaca giudiziaria italiana è decisamente colpevolista. Sarà per lo spirito inquisitorio così profondamente radicato nel nostro Paese, sarà perché i giornali vendono di più se strillano a più colonne che c’è stata una sequela di arresti o proclamano che finalmente il tribunale ha pronunciato la condanna ad una pena aritmeticamente svettante.
Comunque sia, è raro vedere un giornalista che si spinga a coltivare il dubbio. La forza dell’informazione sta nel ribadire certezze punitive.
Questo granitico orientamento si riscontra senza eccezioni quando finisce nel mirino della giustizia penale un politico, un imprenditore di spicco, un uomo della finanza, dello sport o dello spettacolo. Gli italiani si dimostrano colpevolisti nei confronti dei colletti bianchi e la stampa ne riecheggia l’animo repressivo.
Diverso è l’atteggiamento verso gli imputati di reati di sangue rispetto ai quali, di solito, si manifesta una divisione tra il fronte dei colpevolisti e quello degli innocentisti.
Sono quindi evidenti gli effetti dell’orientamento colpevolista contra reum. Il clima inquisitorio rende difficile le iniziative mediatiche del difensore volte a rappresentare le ragioni che militano a favore della presunzione costituzionale di innocenza.
Resta da dire della terza regola empirica. E’ quella che si riassume nella formula secondo cui la difesa gode di esigui spazi per comunicare nella fase investigativa, mentre riacquista libertà e forza nella fase del giudizio.
Il pubblico dibattimento è il terreno di elezione delle iniziative della difesa ai fini di sostegno mediatico perché qui vengono meno tutti i lacci e i laccioli che impediscono di far conoscere all’opinione pubblica la posizione della difesa, primo fra tutti il limite del segreto investigativo. Purtroppo, in molti casi gli interventi in sede di giudizio finiscono per essere tardivi e anche poco efficaci perché i media, almeno fuori del caso dei processi di sangue, trascurano il dibattimento come se tutto ciò che accade in questa fase fosse un déjà vu rispetto a quanto riferito dalla cronaca nel corso delle indagini preliminari.
Se quelle fin qui analizzate sono tre regole con le quali devono fare i conti le strategie di comunicazione della difesa, non va dimenticato che, a volte, l’opzione ottimale è il silenzio. Come nel teatro e, in ambito processuale, nella cross examination, anche le pause sono gesti significativi che creano la suspence della attesa.
A volte pure la fretta dettata dalla esigenza di rispondere a tambur battente alla notizia di un provvedimento di segno negativo può nuocere alla incisività del messaggio, come accade, secondo una riprovevole pratica peraltro assai diffusa, quando si preconfezionano diverse versioni di un comunicato stampa, modulate sulla falsariga dei diversi epiloghi decisori ipotizzabili in relazione ad un processo penale.
Questa scelta operativa ricorda la predisposizione dei “coccodrilli” nelle redazioni dei giornali, pezzi agiografici scritti con tanto anticipo da far avvertire l’odore di muffa quando vengono pubblicati.
La nuova retorica insegna che non si può argomentare quando ancora non si conosce il contenuto del discorso con il quale ci si deve confrontare.
Un’ultima considerazione. Il silenzio si addice al giudice che ha pronunciato la sentenza. E’ un dovere deontologico al quale non sembra essersi attenuto il Presidente della Corte di assise di appello di Perugia che ha assolto Amanda Knox. In una intervista radiofonica, egli ha commentato la sentenza offrendo una chiave interpretativa personale che, al di là del merito dei rilievi, esprime una sua opinione trasformando in monocratica una decisione collegiale, presa per di più con la partecipazione di giudici popolari.
Anche questo episodio dimostra quanto siano delicati i rapporti di convivenza tra comunicazione e processo penale. Ciò non deve indurre peraltro ad attenuare l’impegno volto a definire modi e limiti delle strategie di sostegno mediatico dell’imputato contro il quale il pubblico ministero abbia suscitato la pressione della stampa a supporto dei suoi obiettivi processuali.
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