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Il clima, la grande cecità e il ruolo dei comunicatori

12/09/2017

Sergio Vazzoler

È solo la politica a essere cieca davanti all’aggravarsi del global warming e dei suoi effetti? E i professionisti della comunicazione sono esenti o immersi in questo ottenebramento collettivo? È quello che si domanda Sergio Vazzoler in questa riflessione sui cambiamenti climatici e il ruolo dei comunicatori.

Dove ritroviamo la “grande cecità” di cui parla Amitav Ghosh nel suo recente libro dedicato ai cambiamenti climatici? E i professionisti della comunicazione sono esenti o immersi in questo ottenebramento collettivo?

È ovvio che quando si va a caccia di responsabilità si è portati a partire sempre dal “potere”. Ed è certamente emblematico il tweet del 29 agosto del Presidente USA Trump che, annunciando l’arrivo dell’uragano Harvey esclama un bel “Wow!” proprio come un bambino davanti a un nuovo videogioco di avventura, ignorando che da lì sarebbero partiti giorni interminabili di ansia, distruzione e terrore per una parte importante del suo popolo. E una simile cecità la troviamo anche nel silenzio assordante della politica italiana nei confronti tanto delle emergenze ambientali quanto delle opportunità di riconversione green della nostra economia, come denunciato da Walter Veltroni in una lettera a La Repubblica del 10 settembre, proprio nel giorno in cui l’ennesima “bomba d’acqua” (a proposito, quando finiremo di definire in modo così stupido questo tipo di eventi?) provoca l’ennesima strage a Livorno.

Ma è solo la politica a essere cieca davanti all’aggravarsi del global warming e dei suoi effetti?

No, affatto. E a delineare i confini di questa perdurante cecità è proprio Ghosh quando scrive “Quando le generazioni future si volgeranno a guardare la Grande Cecità, certo biasimeranno i leader e i politici della nostra epoca per la loro incapacità di affrontare la crisi climatica. Ma potrebbero giudicare altrettanto colpevoli gli artisti e gli scrittori, perché dopotutto non spetta ai politici e ai burocrati immaginare altre possibilità”. Già, perché la narrativa contemporanea sembra essere incapace di affrontare il tema del cambiamento climatico, relegato a un qualcosa di simile agli extraterrestri o ai viaggi interplanetari. Insomma, se si cerca qualche traccia sul tema lo si trova nel fantasy, nell’horror o nella fantascienza. Ma nel romanzo “tradizionale” praticamente nulla. Dunque, la crisi climatica è anche una crisi di immaginazione, di cultura.

Ed è proprio in questa crisi culturale che dobbiamo pensare al ruolo di giornalisti e comunicatori: molti si scatenano contro il dietrofront di Trump rispetto alle posizioni di Obama ma sembrano essere più attratti dallo scontro politico rispetto al merito ambientale, che pare in secondo piano rispetto ai temi dei diritti civili, della sicurezza interna e della lotta al terrorismo. Picchi di attenzione vengono dedicati dinnanzi ai segnali acuti quali le alluvioni e gli eventi naturali estremi ma l’attenzione scema dinnanzi ai segnali deboli (ma altrettanto gravi) sul medio periodo che si stanno consolidando anche a casa nostra: la siccità dilagante in gran parte del Paese, il crollo delle produzioni vinicole (che non viene certo compensato dalla qualità), le conseguenze sull’agricoltura e sull’economia nazionale fanno fatica a trovare una “narrazione” in grado di incidere davvero sulla consapevolezza e sui comportamenti tanto dei decisori quanto delle comunità.

Ma, quindi, cosa si dovrebbe fare? Gridare più forte fin tanto che qualcuno si decida ad agire? Coltivare l’allarmismo per spaventare i popoli? Boicottare le multinazionali che vivono ancora oggi dell’economia basata sul fossile? No, le strade di un certo ambientalismo dal respiro corto sono già state battute con evidenti fallimenti, tanto in politica quanto nella comunicazione. Al contrario, per i professionisti della comunicazione c’è un enorme spazio di manovra per “unire i puntini” della crisi ambientale:

  • far emergere i segnali deboli, indagare e rendere evidenti le cause compiendo un grande sforzo di semplificazione e di concretezza per rendere temi indubbiamente complessi e percepiti come lontani in qualcosa di molto “vicino” tanto nel linguaggio quanto nelle conseguenze sul proprio vissuto quotidiano;

  • trovare una nuova chiave di lettura circa le soluzioni da mettere in campo affinché anche piccole imprese, agricoltori, artigiani e commercianti possano diventare più consapevoli dei rischi derivanti, ad esempio, dal mancato adeguamento assicurativo contro gli eventi naturali estremi ma soprattutto delle opportunità economiche nell’adottare strumenti che centrino gli obiettivi di un’economia più sostenibile;

  • abbandonare una volta per tutte la sindrome di “Rain Man” che non colpisce soltanto la scienza e gli enti terzi che da sempre si trincerano dietro fiumi di acronimi, codici e numeri incomprensibili ma che spesso e volentieri si estende a chi dovrebbe tradurre e divulgare ad un pubblico “largo” i temi scientifici e ambientali e, invece, preferisce mantenere alta l’asticella del linguaggio e del dibattito per apparire un esperto su scala globale, ricorrendo a sillogismi e standard internazionali indecifrabili ai più;

  • andare a caccia di tutte quelle esperienze di comunicazione artistica che possano parlare un linguaggio universale e coinvolgere maggiormente chi ancora oggi associa la crisi ambientale soltanto all’orso polare e non ai nostri allevamenti o alle nostre vigne.


Insomma, per superare la “grande cecità”, dobbiamo tutti quanti lavorare affinché un nuovo sistema economico e sociale basato sull’attenzione ambientale riesca a caricarsi di valori simbolici desiderabili con la stessa forza con cui ci riusciva l’economia basata sui fossili dove – come ricorda Ghosh – “una veloce decapottabile evocava libertà e il vento nei capelli”.

 

 

 

 

 
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