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1970: si consolidano in Italia le Rp. Ferpi nasce dalla fusione di Firp e Fierp

10/01/2020

Toni Muzi Falconi

Ricorre quest'anno il cinquantesimo anniversario della fondazione di Ferpi, nata dall'integrazione tra Firp e Fierp. Toni Muzi Falconi ne ricorda alcuni momenti.

Il 19 e 20 Agosto di 50 anni fa a Milano si svolgeva la prima Assemblea della FERPI, frutto della integrazione fra FIRP e FIERP.

Scrivevo allora per Paese Sera, quotidiano della sera della sinistra italiana il cui direttore era Giorgio Cingoli.  Ecco qui sotto i due articoli che hanno accompagnato la nascita della FERPI.

Paese Sera - 18 agosto 1970
Chi sono, che vogliono i "comunicologhi" italiani. Sogni e ambizioni del tecnocrate di public relations

L’esperto in relazioni pubbliche, quando fa il mestiere sul serio, mira al potere aziendale. Un convegno per difendersi dagli "abusivi" Guadagni più che lauti.

Otto colonne dell’elenco telefonico di New York non sono sufficienti a contenere i nomi dei consulenti di relazioni pubbliche che operano nella sola metropoli americana. Più di duemila sono i miliardi di lire che annualmente vengono spesi dalle aziende statunitensi per attività definite strettamente di r.p. ed è noto che i bilanci delle industrie americane sono abbastanza precisi; oltre centomila i professionisti che, dall’interno o dall’esterno, esercitano negli USA le relazioni pubbliche come attività esclusiva.

In Italia le dimensioni del fenomeno sono ovviamente assai diverse. Qualche settimana fa, a Milano, i professionisti italiani di relazioni pubbliche, dopo diversi anni di beghe e divisioni interne, hanno dato vita ad una federazione unitaria con due precisi obiettivi: il riconoscimento giuridico della professione che non sfoci però, ci hanno tenuto a sottolinearlo, in un albo tipo quello dei giornalisti e la conseguente emarginazione di tutti coloro che fino ad oggi, con totale immunità, si sono serviti della "copertura della sigla delle r.p. per contrabbandare nella migliore delle ipotesi della vera e propria pubblicità redazionale, nella peggiore una prevalente attività di corruzione ai limiti e spesso oltre le tolleranze dei codici".

L’immagine delle r.p. in Italia è arrivata a un punto tale per cui molti professionisti preferiscono farsi chiamare esperti in comunicazione o addirittura "comunicologhi". L’opinione pubblica, anche la più qualificata, traduce spesso la sigle r.p. in Rinfreschi e Pranzi, oppure in Relazioni Paternalistiche.

Oggi sono ufficialmente un migliaio nel nostro Paese i professionisti di r.p. In realtà solo la metà svolge dei compiti analoghi a quelli dei tecnici di altri paesi, e non più di una cinquantina possono essere considerati dei veri e propri esperti di relazioni pubbliche.

Fra questi sono individuabili due correnti, grosso modo da identificare in due generazioni. I più anziani che hanno iniziato le attività nell’immediato dopoguerra al seguito delle truppe americane e soprattutto al servizio delle grandi industrie petrolifere straniere; i più giovani i quali svolgono prevalentemente opera di consulenza dall’esterno.

Mentre i primi, molto esperti, incarnano abbastanza fedelmente l’immagine del "pr man" americano, ex giornalista, con capillari contatti con la stampa e nel mondo politico, oppure bravissimo nell’organizzare manifestazioni, congressi, elezioni di Miss Italia o squadre ciclistiche per conto delle industrie più diverse; i secondi, per lo più laureati in economia, sociologia o scienze politiche, proveniente da qualche tipo di esperienza di militanza politica, abbastanza teorici e dottrinari, costituiscono un animale tutto italiano. Essi sono molto ambiziosi e mirano al potere aziendale. Ed è anche per questo che le aziende diffidano di loro e li relegano prevalentemente in posizioni di secondo piano oppure li tengono come consulenti esterni. Infatti, se la impostazione teorica dei "giovani" venisse adottata, essa richiederebbe una radicale ristrutturazione politica e organizzativa dell’azienda. Dietro il loro apparentemente innocuo slogan di "razionalizzazione del dialogo e delle comunicazioni", essi - parlandone con loro un po’ più a fondo - intendono in realtà mettere l’imprenditore e le direzioni aziendali di fronte alla necessità di impostare una globale politica di comunicazione a tutti i livelli (dipendenti, azionisti, consumatori, fornitori, stato, stampa, gruppi di pressione, sindacati…) che, se attuata, finirebbe per riunire nelle mani di una sola persona (il pr man, appunto) un gigantesco potere di intervento in ogni angolo oscuro e fino ad allora tranquillo dell’azienda.

Vediamo ora quanto guadagna in Italia un esperto di r.p. Innanzitutto distinguiamo il consulente esterno dal funzionario o dirigente interno. Il primo, a Roma, chiede per un lavoro saltuario dalle 50 alle 100 mila lire al giorno (dalle 100 alle 150 mila a Milano), per un lavoro a più lungo termine sul milione di lire al mese a Roma (un milione e mezzo a Milano).

I funzionari e dirigenti interni guadagnano dalle 400 alle 800 mila lire al mese se sono di alto livello (in genere dirigenti o comunque dipendenti direttamente dal presidente o dall’amministratore delegato), dalle 300 alle 500 mila lire al mese se sono di medio livello (funzionari e impiegati di prima categoria, al terzo livello gerarchico aziendale) e dalle 150 alle 300 mila lire al mese se sono al quarto livello oppure praticanti.

Valutare gli investimenti globali delle aziende italiane in relazioni pubbliche in 25-30 miliardi l’anno non è azzardato, ritengono gli esperti. In realtà è difficile dare anche un valore di approssimazione a queste cifre, e forse non sarebbe male se la nuova federazione si ponesse come obiettivo anche quello di effettuare una indagine che valuti in termini quantitativi il mercato nazionale.

Comunque, l’adozione di un programma di comunicazioni, ritenuta da molti una spesa improduttiva o tuttalpiù produttiva a lungo termine, comporta invece, a detta dei più preparati ed esperti tecnici di r.p. dei risultati immediati, misurabili anche in termini di fatturato e di utili. Ma di questo parleremo la prossima volta.
Toni Muzi

Paese Sera - 19 agosto 1970

La parola agli "arrabbiati" del mestiere. I "guerriglieri aziendali" delle public relations

La loro pretesa di "razionalizzare" e di "umanizzare" le leggi del profitto suscita diffidenza fra gli imprenditori, che li emarginano dal potere effettivo.

Nell’articolo precedente relativo alle relazioni pubbliche in Italia, si diceva che, a detta di molti esperti, un programma di comunicazione può comportare per l’azienda dei risultati immediati, misurabili in termini di aumento di fatturato e utili. Fra coloro che la pensano così è Enrico Gatti, vice direttore generale della Honeywell italiana. Egli non è propriamente un uomo di relazioni pubbliche, in quanto proviene dall’attività commerciale ed è quindi abituato a ragionare in termini "molto concreti".

“Ci stiamo avvicinando sempre più verso una situazione - egli sostiene - in cui sarà il consumatore a decidere la vita o la morte di una azienda. E badi che parlo non solo dei detersivi o dei saponi, ma anche dei prodotti industriali. Del resto, il progresso tecnologico ci porterà inevitabilmente ad un punto in cui esisteranno prodotti e sistemi sostanzialmente uguali fra loro per qualità e prezzo. Ed ecco che l’immagine che il consumatore avrà della marca del prodotto o dell’azienda fabbricante, diventerà l’elemento fondamentale di scelta. Lo stesso discorso vale per i rapporti con lo Stato, il cui intervento condizionante nell’ambito delle attività economiche si farà inevitabilmente sempre più sentire. Anche il mercato finanziario giocherà un ruolo di importanza crescente man mano che aumenterà l’esigenza di reperire fra i risparmiatori i fondi necessari ai cospicui investimenti che si renderanno necessari. E’ chiaro dunque - continua Gatti - come l’immagine che una azienda riuscirà a proiettare di sé assuma una vitale importanza. Ed è anche chiaro che una corretta impostazione di un programma di comunicazioni da parte dell’alta direzione dell’impresa richiede una visione globale e non settoriale del problema. Purtroppo - conclude il vicedirettore della Honeywell - ciò non è ancora avvenuto in modo apprezzabile per due motivi fondamentali: da un lato la miopia di una gran parte della classe industriale italiana che, anche se non lo vuole ammettere, ragiona e opera ancora in maniera paternalistica; dall’altro la obiettiva mancanza di uomini di relazioni pubbliche di sufficiente livello intellettuale e di preparazione che giustifichi un discorso di tale importanza e complessità alla direzione dell’azienda, di per sé (come abbiamo visto) non ricettiva”.

Michele Petrantoni è uno dei più qualificati fra i giovani esponenti "arrabbiati" delle relazioni pubbliche. Questa la sua posizione: “La finzione continua della ripetizione della solita frase - ma quello che importa è il profitto! - da parte delle aziende è sconfortante. Certo, diversamente sarebbe un nonsenso, il fallimento della azienda. Ma qui è il punto; il profitto e la redditività aziendale sono garantiti esclusivamente da una conduzione scientifica e razionale, non da decisioni incontrollate e incontrollabili; né da mitizzazioni del profitto, che spesso nascondono posizioni pretestuose, paternalistiche e intimidatorie. Le relazioni pubbliche - e Petrantoni, quando dice questo, pare proprio convinto, persino con una certa dose di fanatismo - non sono un trucco della società dei consumi, una manovra di accerchiamento. La loro funzione essenziale forse, è proprio quella di mettere l’ordine dei principi nel disordine degli interessi: riproporre cioè a principi generali, quando esista, il rischio dell’interesse individuale, dell’opinione personale, dell’uso soggettivo del potere”.

Non c’è dubbio che la prima reazione dell’imprenditore, anche del più avanzato, di fronte ad un discorso del genere è di accantonarlo con la motivazione della sua eccessiva teoricità.

In realtà invece egli intuisce che si tratta di un discorso pericoloso. Stupisce l’industriale che proprio dal ‘pr man’, da colui cioè che ha la funzione di portavoce dell’azienda e che quindi dovrebbe essere fra i più fedeli alle impostazioni classiche di gestione, provenga un discorso di dissenso dall’interno. Non deve quindi sorprendere se le aziende preferiscono confinare le attività di relazioni pubbliche nell’ambito dell’organizzazione di manifestazioni e congressi, della stesura e diffusione di qualche comunicato stampa, della inaugurazione di un nuovo stabilimento con stretta di mano al ministro in carica.

Fino a quando però riusciranno gli imprenditori ad evadere questo tipo di discorso? I ‘giovani arrabbiati’ delle rp non sono contro il sistema, anzi il loro obbiettivo è proprio quello di renderlo più razionale ed efficace, e per quanto mordano il freno, riconoscono che ci vorrà del tempo. Ma sono abbastanza convinti che un giorno o l’altro si finirà per dare loro ragione. Non li sfiora il dubbio che allora, quando l’imprenditore avrà concesso loro l’impostazione di un programma globale di ‘razionalizzazione delle comunicazioni’ essi verranno totalmente assorbiti dall’ideologia aziendalista oppure finiranno per accorgersi che programmare le comunicazioni al servizio di un sistema che fa acqua da tutte le parti si traduce obbiettivamente in un inganno nei confronti di quella ‘opinione pubblica’ che proprio loro, i tecnici di relazioni pubbliche, hanno più di altri contribuito a fare, in una certa misura, rispettare dal potere industriale. Ma questo è un altro discorso.
Toni Muzi

PS. del 29 dicembre 2019

Per la cronaca è anche utile, a futura memoria, ricordare due questioni rilevanti:

1. La Firp e la Fierp risalgono entrambi al 1956, una a Roma e l’altra a Milano. Seguendo le consuetudini che oggi gli analisti finanziari usano per datare la nascita dei soggetti del mercato, è normale risalire, nel caso di una fusione come questa, alla data di nascita del soggetto più antico (nel caso, il 1956);
2. Non basta. Nel 1982 Gherarda Guastalla Lucchini, allora incaricata di presiedere e di incorporare nella Ferpi l’IPR (Istituto per le Relazioni Pubbliche), assolse al suo incarico e, sempre utilizzando lo stesso principio, la nascita della Ferpi risalirebbe addirittura al 1952, quando Roberto Tremelloni, ministro socialdemocratico delle Finanze, fondò l’IPR annunciando il vincitore del Primo Oscar di Bilancio, la società Motta con la motivazione che era la prima società che - udite udite !- rendeva noto il proprio fatturato!

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