Bufale, disinformazione e fattoidi. Fra funzione sociale della critica e ruolo dei relatori pubblici
28/04/2017
L’adeguatezza di un approccio di buona comunicazione si radica tanto nelle fonti quanto nel ruolo degli intermediari e degli stessi destinatari dei messaggi. Lo sostiene Raffaele Paciello che questa settimana dedica la rubrica #AroundPA al resoconto della partecipazione ai tavoli di lavoro convocati dalla Presidente della Camera Boldrini per approfondire il tema delle fake news.
“Ciò che l’informazione consuma è l’attenzione di chi riceve. Quindi una ricchezza informativa crea una povertà di attenzione”. Quando nel 1971 il premio Nobel per l’economia Herbert Simon apriva con questa affermazione l’era dell’economia dell’attenzione, probabilmente non poteva prefigurare quello scenario di bulimia di fonti e messaggi che, a distanza di qualche decennio, si sarebbe manifestato con
l’overload informativo odierno.
Allo stesso modo quando negli anni novanta, da giovane studente, mi capitò di imbattermi nei volumi e persino nella costruzione di un
Museo del Falso del professor Salvatore Casillo, non avrei nemmeno potuto fantasticare che quell’approccio da sociologia industriale in pochi anni avrebbe abbandonato il contesto aziendale per diventare un elemento rilevante della vita pubblica e soprattutto della vita sociale e democratica di un Paese. In altri termini, così come Simon aveva posto il problema dell’attenzione senza probabilmente pensare che sarebbe diventato
mainstream in poco tempo, anche noi “studenti del falso” non potevamo immaginare quanto il tema delle false voci e dei falsi prodotti avrebbe potuto sconfinare da materia di esclusiva pertinenza della competizione fra grandi player aziendali, a territorio di criticità, riflessione e scontro istituzionale, democratico e sociale.
Ecco per quale motivo, quando pochi giorni fa ho avuto l’occasione e l’onore di portare la voce di Ferpi ai
tavoli di lavoro convocati dalla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini per approfondire il tema delle fake news, la consapevolezza delle parole di Simon e il ricordo dell’esperienza di “studente del falso” hanno finito con il predominare rispetto ad un approccio ontologico alle bufale.
Quando nel suo intervento introduttivo la presidente Boldrini ha sottolineato la straordinarietà della presenza di tante anime differenti, raccolte in quattro tavoli di lavoro “per ragionare e reagire insieme alla disinformazione come uno dei fenomeni più delicati dei nostri tempi”, il tema dell’economia dell’attenzione ha fatto prepotentemente ingresso al tavolo della discussione.
Se, come ha ripetuto la Presidente, “essere informati correttamente è un diritto, ma essere disinformati è un pericolo”, comprendere tale pericolosità non è sempre un processo così immediato e scontato.
È anzitutto un processo culturale che esula dagli strumenti possibili, ma riguarda prima di tutto la capacità di superare quella semplicità cognitiva così fortemente diffusa in una società della post-verità che rischia essa stessa di divenire una “post-società”.
La velocità, la minuziosità e la viralità di diffusione delle informazioni (e dunque anche delle disinformazioni, delle bufale e dei fattoidi), pongono il problema di una disgregazione relazionale e sociale che finisce con il generare una sfiducia collettiva, spesso anche fondata su pseudo-dati e pseudo-ricerche, ma soprattutto radicata sulla principale debolezza della modernità: l’attenzione.
Chi oggi si occupa di comunicazione sa bene che sempre di più il tema vero non è il grado di verità, accuratezza o completezza di un’informazione, ma il suo grado di
appeal emozionale. Questo elemento fa leva su uno spostamento del baricentro dal processo di diffusione del messaggio a quello di ricezione. La complicità a ricevere ed assorbire meglio dati emotivamente accattivanti rispetto a dati meno emozionali, sta di fatto conducendo ad un impoverimento di quella funzione sociale della critica. Per questo è sempre più complesso distinguere l’informazione incompleta dalla bufala, la propaganda dall’informazione, la trasparenza dal voyerismo, la comunicazione istituzionale da quella politica, la comunicazione sociale da quella di brand, l’immagine dalla reputazione.
In questo senso il contributo portato da Ferpi al tavolo #Bastabufale di Montecitorio, per quanto orientato al contesto d’impresa, ha voluto sottolineare come l’adeguatezza di un approccio di buona comunicazione si radica tanto nelle fonti quanto nel ruolo degli intermediari (o disintermediari) e degli stessi destinatari dei messaggi. Non si tratta più di guardare ad una comunità professionale, istituzionale ed imprenditoriale per la sua capacità di amplificare i messaggi, quanto per quella di assumere una posizione ed un ruolo di “allenamento” alla crescita della funzione sociale della critica.
E per quanto tale approccio possa apparire di natura culturale, scientifica e formativa, il ruolo dei professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche, ovunque essi operino, assume una rilevanza ed una responsabilità sempre maggiore nella costruzione di quell’ecologia dell’attenzione in grado di migliorare gli aspetti relazionali e reputazionali di imprese, cittadini ed istituzioni.