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Comunicazione e responsabilità sociale d'impresa: superare la "cultura della diffidenza con la "cult

24/01/2006

Una riflessione di Nicoletta Cerana.

Continua il confronto sui temi della responsabilità sociale d'impresa e, di seminario in seminario, la questione si allarga e si approfondisce mostrando come l'impegno sociale e ambientale si stia radicando nella cultura e nei comportamenti delle imprese.Recentemente, nel corso del convegno "Dal ROI al REI- dal Return on Investment alla Responsabilità Etica d'Impresa", così ben organizzato dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università La Sapienza di Roma con il supporto di ANIMA e  Hill & Knowlton, le testimonianze offerte dalle aziende presenti Vodafone, Procter&Gamble, Microsoft, BNL, Coop Italia, Enel, JWT (queste ultime relazioni saranno disponibili sul sito della prossima settimana. ndr) ci hanno offerto una panoramica eccellente del livello di sviluppo che  le strategie e i programmi di CSR hanno avuto nel giro di soli due anni.Tecniche sofisticate di ascolto degli stakeholder, programmi d'avanguardia in tema di stakeholder management, articolati progetti di sviluppo delle pari opportunità in azienda, innovazione di prodotto al servizio della comunità, filantropia che supera i meri limiti della donazione per diventare strumento di network sociale, per  fare sistema con il territorio e offrire soluzioni concrete ai problemi del disagio sociale: tutto questo è oggi responsabilità sociale nelle grandi organizzazioni che hanno adottato concretamente e sinceramente la corporate responsibility e la sostenibilità come nuovo modello di sviluppo dell'impresa.L'unico neo in questo scenario positivo è rappresentato dalla quantità e dalla qualità della comunicazione che dovrebbe guidare e accompagnare le strategie di  responsabilità sociale.I dati forniti dal CSR Monitor 2005 di Eurisko presentati al convegno di Roma sono inequivocabili: i programmi di CSR sono comunicati poco e male. Da un lato infatti  crescono le attese di informazione dei cittadini/consumatori (l'80% degli italiani vorrebbe saperne di più in materia di CSR) ma, dall'altro  aumentano anche i giudizi critici sulle modalità con cui le imprese comunicano la CSR giudicate poco oneste ed affidabili. In Italia solo il 29% dei cittadini pensa che le imprese comunichino in modo onesto il loro impegno in campo ambientale e sociale.Le critiche dei cittadini si legano alle esperienze negative vissute sia in prima persona sia attraverso le notizie pubblicate dai giornali dove trovano spazio soprattutto le imprese che l'etica, invece di osservarla, la violano in modo più o meno grave.Intorno alla comunicazione di CSR e all'eticità con cui essa è gestita dalle imprese si è dunque creata una specie di "cultura della diffidenza" che  rappresenta, oggi,  "il"  problema emergente per tutti i professionisti di comunicazione che si occupano di CSR.C'è chi intravede la soluzione del problema in programmi di formazione etica dei comunicatori che dovrebbero essere avviati dalle associazioni di categoria e dagli ordini professionali. La proposta è condivisa da giornalisti, comunicatori e accademici che auspicano progetti di lavoro comuni in cui coinvolgere anche il mondo della pubblicità e dell'editoria che fino ad oggi non hanno  preso posizione su questo tema.Altri identificano una possibile soluzione nella creazione di una nuova figura professionale quella dell'ethic officer o CSR manager cui affidare la missione, tra le altre, anche di "watch dog" della comunicazione  per ridare credibilità e fiducia nelle dichiarazioni e nei programmi etici delle imprese.Altri invece  ritengono che per superare questa cultura della diffidenza sia necessario cominciare a rendicontare, accanto ai comportamenti ambientali e sociali delle imprese, anche i loro comportamenti comunicativi. Il che significa cominciare a valutare  anche la comunicazione messa in atto da tutte le imprese - profit, non profit e pubbliche - dal punto di vista della responsabilità.Questa ipotesi di lavoro lanciata da uno dei più autorevoli professionisti di relazioni pubbliche Toni Muzi Falconi è estremamente interessante  per la coerenza e la concretezza che la contraddistinguono e mi sembra quella perseguibile da subito se si vogliono ottenere a breve risultati di miglioramento. Se è vero come sostiene Muzi Falconi che ogni tipo di relazione fra l'impresa e i suoi stakeholder passa attraverso strumenti comunicativi (che sono normalmente attivati  non solo dalla funzione di comunicazione ma da tutte le funzioni aziendali) allora  si è coerenti solo se si valuta anche la responsabilità con cui questi comportamenti comunicativi vengono impostati e gestiti.Non possiamo continuare a considerare la comunicazione come qualcosa di slegato dai comportamenti produttivi, economici, sociali e ambientali dell'impresa; non possiamo continuare a considerare la comunicazione alla stregua di una specie di sovrastruttura che sta in un limbo esente da ogni valutazione e giudizio di tipo etico.Chi lo pensa manca di realismo e concretezza e potrebbe anche essere indotto a valutare positivamente lo sforzo fatto dalla Banca Popolare Italiana di Fiorani che per ben 8 anni ha pubblicato un Bilancio Sociale  che i più curiosi possono ancora consultare collegandosi al sito dell'Istituto di Credito. In conclusione: l'ipotesi fatta di aggiungere ai Bilanci di Sostenibilità delle imprese un quarto livello di valutazione  (dopo quello economico, ambientale e sociale) che sia dedicato alla valutazione della responsabilità dei comportamenti comunicativi mi sembra  meriti un lavoro di approfondimento a cominciare come sempre si fa in questi casi - dall'individuazione dei parametri e dei criteri  (i famosi KPI - Key Performance Indicator)  sulla base dei quali rendicontare la comunicazione socialmente responsabile. Autorevoli studiosi ne hanno già identificati sette: trasparenza, veridicità, chiarezza, completezza, tempestività, correttezza e rilevanza. Il lavoro è quindi cominciato. Noi relatori pubblici vorremmo proseguire in questa direzione.Nicoletta Cerana, responsabile CSR FERPI
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