Continua il dibattito sulla comunicazione della responsabilità sociale e la comunicazione socialment
21/03/2006
Un'accesa riflessione di Silvia Scopelliti, Banca Intesa.
Da qualche settimana, è stato avviato su questo sito un vivo dibattito sui temi della CSR e della comunicazione socialmente responsabile che oggi prosegue con un acceso intervento di Silvia Scopelliti, CSR Manager di Banca Intesa, stimolato da una conversazione con Toni Muzi Falconi.
Silvia Scopelliti, che si occupa di CSR in Banca Intesa, ha un diavolo per capello.Il diavolo è la nostra discussione sulla distinzione fra comunicazione della responsabilità sociale e comunicazione socialmente responsabile.'Non credo che abbia senso' dice con fermezza.'Parliamone' rispondo io.Ecco alcune posizioni espresse da Silvia durante il nostro colloquio che ritengo di grande utilità riportare pari pari per i nostri lettori. Sono riflessioni acute, stimolanti e ricche di umore, arguzia e passione. Il dibattito continua ed è aperto (dite qui la vostra).
Sulla comprensione del fenomeno CSR e sulla credibilità dei media La mancanza di informazione adeguata sul senso autentico della CSR (leggi business sostenibile) non riguarda i soli giornalisti, ma una categoria a mio avviso più ampia, che è quella - ahinoi - degli operatori della comunicazione in senso lato, a partire dagli stessi uffici stampa.Avrei invece più fiducia in clienti/consumatori, che - sai bene - se fanno fatica a indicare una definizione di cosa è socialmente responsabile nel comportamento delle imprese cui si affidano, sanno tuttavia indicare con chiarezza cosa NON lo è.Come i consueti monitor mostrano ab initio la "gente" ha le idee abbastanza chiare: NON è disposta a barattare qualità nei prodotti e servizi con charity o altro. Di questo terrei conto, proprio perchè è un dato certo nella confusione dei messaggi che le aziende riversano sul mercato, tra charity, cause related marketing e così via.Più in particolare rispetto ai media, dobbiamo tenere conto del ruolo crescente dei personal media. Nell'era dell'accesso globale è cambiato in quelle società occidentali in cui il benessere è maggiore e più diffuso - il rapporto con l'informazione, oggi immediato e personale.All'enorme aumento di fonti e informazioni, fa paradossalmente riscontro un crollo nella credibilità di media, istituzioni, anche sovranazionali, comunità scientifica. Si salvano solo il passaparola dei conoscenti e le ONG!Non che abbia la fissa dei blog, ma non posso fare a meno di registrare il fenomeno:- il potenziale di internet è oggi assolutamente sottovalutato un po' ovunque, ed è un treno, questo, che le imprese italiane fanno ancora in tempo ad agganciare. Proviamo a parlarne in maniera strutturata?- la sostanza di questo punto rimanda - ancora - all'engagement, a nuove forme di relazione con un nuovo pubblico di riferimento, dal potenziale di impatto enorme.Sulle esagerazioni comunicative della CSR La CSR richiede coraggio.E' uno di quei casi in cui l'eccesso di comunicazione produce un effetto di segno opposto. Imprese e associazioni di categoria tendono spesso a dimenticarlo: e passano il segno.Tacere è più difficile, e pone una ulteriore sfida a chi comunica l'impresa o a chi gestisce le relazioni con gli stakeholder: la capacità di avere una visione di lungo termine, strategica e non tattica; di dosare e bilanciare di continuo la comunicazione e la relazione, senza essere autoreferenziali: esercizio pericoloso e a tratti cinico, ma indispensabile.Che rimanda dritto dritto alla diversity intesa in senso strategico (vale a dire la capacità di fare della differenza un valore, e attorno ad essa costruire - vedi IBM - casi di successo). E soprattutto alla capacità di saldare nella stessa visione strumenti di relazioni esterne e responsabilità d'impresa.
Sulla fine del ciclo della CSRE' vero che è finito un ciclo, le multinazionali tagliano i budget e riducono gli staff, il dibattito già da tempo si svolge all'estero soprattutto attorno alla gestione del rischio di reputazione, attività strategica che i mercati finanziari premiano. Di questi temi non vedo traccia, salvo alcune eccezioni, in Italia.Eppure ci sono lezioni da ricordare: per l'impresa l'esigenza di ripensare se stessa, il modo in cui comunica e interagisce con i pubblici di riferimento.Sono convinta che sia necessario guardare alla sostanza della relazione con gli stakeholder piuttosto che a tutto il coté di iniziative, tavoli, panel, frizzi e lazzi che, specie da noi, questo dibattito ha sviluppato.Al diavolo gli standard, i bilanci sociali, gli accordi internazionali volontari. Cui prodest tutto ciò, quando manchi l'unica assurance che realmente conta nella reputazione di una impresa, cioè il consenso dello stakeholder?La reputazione è prerequisito fondamentale per costruire dialogo e relazioni positive. Bonificare il terreno, d'accordo, non è sempre nelle facoltà di chi comunica l'impresa, ma tracciare la strada per evitare "gli iceberg" del rischio di reputazione, quello sì!Sul possibile ruolo dell'associazione professionaleL'associazione ha - a mio avviso - la responsabilità di tenere barra ferma a dritta, e separare il grano dall'oglio. Soprattutto in un momento in cui si sta chiudendo un corso, occorre forse abbassare i toni, e scendere dal cavallo.Occorre tornare a parlare di relazioni pubbliche e di rischio di reputazione (che più che con l'autoreferenzialità dei bilanci sociali, della charity, hanno a che vedere con la gestione del dissenso prima di tutto in MY backyard!).Questo, per difendere professionalità e reputazione della categoria, fare education (tremo al pensiero di tutte le società che sul territorio si improvvisano consulenti di CSR!!!), e - punto a cui tengo molto - recuperare la capacità di ascoltare ed elaborare una visione strategica, mettere sul dibattito sulla CSR in senso stretto una bella pietra tombale, e fissare alcuni paletti: CSR sì ma con i fatti; dialogo sì, ma produttivo; stakeholder sì, ma rappresentativi.Le multinazionali e le grandi ONG da tempo hanno scontato il fatto. Quanto ci vorrà perchè anche in Italia emergano nuovi terreni di confronto?In questo quadro, io vedo una opportunità: quella di anticipare e orientare il cambiamento, e fare cultura, dentro e fuori (imprese, territorio, media) l'associazione, abbandonando il dibattito sulla CSR da addetti ai lavori e raccogliendo piuttosto la lezione che essa rappresenta per le relazioni pubbliche e, più in generale, il rapporto tra impresa e società.
Da dove partire?- Da un lessico comune, per cominciare. Sembra banale ma non lo è.- Dai criteri, da una piattaforma snella che sottenda indicazioni di processo, e - perchè no? - da una checklist che proponga do's and don'ts.- Da alcuni punti fermi, ad esempio la partnership. Esiste già nel nostro paese un paradigma nuovo che lega impresa e società civile. Esplicitarlo e ricondurlo a sistema, alle relazioni pubbliche, proporlo come strumento di gestione della reputazione e del consenso, coinvolgendo le istituzioni, può essere un filone nuovo di attività. E contribuire ad affermare anche in Italia una visione della CSR come "quarta via", per costruire un modello economico e sociale realmente partecipato e inclusivo.(tmf)