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Dare conto del lavoro: il valore sociale della concorrenza

25/03/2010

Paolo D'Anselmi analizza sinteticamente il mercato del lavoro ma lo fa in un'ottica nuova: quella della concorrenza. Perchè la concorrenza ancor prima di essere una questione di natura economica rappresenta un valore sociale. Un tema di grande attualità per chi si interessa di comunicazione.

di Paolo D’Anselmi
1. Dare conto del lavoro
In un mondo in cui tutto dipende da tutto, nella ecologia come nella economia, il tuo benessere dipende dal mio lavoro e viceversa. È questo il senso ultimo della frase “sistema-paese”: nessuno può chiamarsi fuori, nessuno è al di sopra delle parti. Si rende necessario dare conto del lavoro. È questo ciò che vuol dire anche il movimento-moda della responsabilità sociale d’impresa (CSR – corporate social responsibility). Tale movimento deve valere tanto nel pubblico come nel privato: dare conto di tutto il lavoro.
Il lavoro di cui non si da conto (quello non valutato) può essere addirittura nocivo alla collettività, sia per il suo impatto in sé (esempio: una giustizia economica lenta serve poco all’economia) sia perché può assorbire troppe risorse (essere sovra pagato) rispetto ad altri lavori e generare così inefficienza del sistema economico complessivo.
2. La concorrenza come approvazione sociale
Il lavoro che è soggetto a concorrenza è immesso in un meccanismo valutativo di comparazione e quindi da conto di se stesso. La libera e volontaria transazione tra fornitore e cliente è un momento di rendiconto del lavoro, essa costituisce il mattone fondamentale dell’approvazione sociale del lavoro svolto. L’essere soggetto a concorrenza genera dunque accountability nel lavoro tramite il meccanismo del confronto concorrenziale.
La “concorrenza è spietata”, si sente dire spesso quando si parla di questo tema. Eppure 17 milioni di italiani, sul totale dei 23 milioni che lavorano, sono soggetti a concorrenza e non si lamentano. Tra i 6 milioni meno soggetti a concorrenza troviamo non solo la amministrazione pubblica (3,5 milioni), ma anche certe grandi banche e certe grandi aziende e le aziende di servizi locali e tanti altri, perfino qualche settore della piccola impresa. La concorrenza è spietata, si dice, eppure una fila saltata, un concorso e un appalto truccati, una scortesia allo sportello sono esempi di assenza di concorrenza. Sosteniamo infatti una equa concorrenza – basata sul merito positivo e sulle regole pubbliche – come valore sociale e politico. Per concorrenza non intendiamo né lo sgambetto tra colleghi né l’assenza di regole dello Stato. Così definita, ci accorgiamo che acquisire consapevolezza del valore sociale della concorrenza aiuta e non deprime i lavoratori. La vera concorrenza spietata è quella che non c’è.
3. L’assenza di concorrenza presenta il rischio di evasione del lavoro
La lontananza del lavoro dal momento transattivo, che lo misura e lo valida dal punto di vista sociale, aumenta la possibilità che il lavoro stesso sia sopravalutato, aprendo così la strada al privilegio. Quindi il lavoro non concorrenziato (non soggetto a concorrenza) è esposto al rischio di evasione. Il lavoro non soggetto a concorrenza va quindi rendicontato ovvero misurato in trasparenza al fine di supplire al meccanismo di confronto che è la concorrenza. Il lavoro non rendicontato è lavoro evaso. È evaso ai fini del confronto, ai fini della valutazione dei profili degli addetti, è evaso, soprattutto, per gli analisti e quindi si riflette in tutta una serie di improduttività a livello socio-economico. Resta comunque il lavoro e l’atteggiamento costruttivo del singolo lavoratore, anche se privato di un suo contesto valutativo.
Ravvisiamo evasione del lavoro in quanto la Autorità Antitrust già ricordava nella sua Relazione del 2002 (pagina 10): “i settori esportatori più dipendenti dai settori più problematici per la concorrenza mostrano tassi di crescita più bassi dei settori meno dipendenti”. Evasione del lavoro è essere una palla al piede di chi lavora ed esporta o serve il mercato interno in modo efficiente.
L’evasione del lavoro fa rima con la evasione fiscale. Intendo mettere le due cose a confronto, ma non per eliderle, non intendo approvare lo scambio che c’è oggi nella società italiana: “io privato evado le tasse, tu pubblico evadi il lavoro”. Questo è il gioco al ribasso nel quale ci troviamo ora. Occorre uscire da questa buca di potenziale produttivo per la nazione. Non è banale avere trovato un altro punto di fallo (oltre l’evasione fiscale) nel circuito del valore sociale. Si tratta di un punto ben più fondato della valutazione soggettiva (e pelosa) sulla scarsa qualità dei servizi pubblici. È un punto che ci porta dritto a ricordare che “la Repubblica è fondata sul lavoro”, non sulle tasse.
Il rendiconto del lavoro consiste nel generare concorrenza laddove questa è assente. Nella impossibilità di introdurre la concorrenza, si tratta di porre in essere delle forme di valutazione che surroghino l’assenza di concorrenza.
4. Lo spartiacque concorrenziale è centrale all’economia ed alla società
La differenza di posizione sociale che ha un reale impatto sul sistema-paese, sulla qualità della economia e delle società, non è la differenza padrone-operaio e lavoratore autonomo-lavoratore dipendente. La vera determinante dello spartiacque sociale sta in come ci si procura il reddito: se il lavoro è soggetto o no a concorrenza.
Tanti lavori, infatti, non si sa cosa producano, non si sa se producano in maniera economicamente vantaggiosa e non si sa se la società è veramente disposta a pagare per essi. Il focus della questione, dunque, deve essere la concorrenza che produce rendicontazione perché è da questa che deriva benessere per la collettività.
5. L’essere soggetti a concorrenza è una opportunità politica
Nel momento in cui riconosciamo lo spartiacque della concorrenza, si apre una opportunità culturale e politica per il piccolo imprenditore e per le sue organizzazioni di rappresentanza. Nel segno della concorrenza i piccoli si configurano come stakeholder a tutto campo.
I lavoratori con partita IVA sono una parte dei piccoli operatori economici soggetti a concorrenza. Essi si lasciano passivamente definire in modo amministrativo, la partita IVA, appunto, ma potrebbero – facendo riferimento ai loro mestieri – darsi un’identità forte nel segno della concorrenza e del proprio dar conto del lavoro. Chiamarsi popolo della concorrenza.
Si apre uno scenario di intervento ampio sul piano economico e culturale. Non è questa la sede né mio il compito di sviluppare qui specifiche proposte di azione politica, ma possiamo delineare in termini generali che porre la concorrenza al centro del dibattito sulle politiche pubbliche implica – per esempio – sostenere ogni sforzo che lo Stato fa per valutare il lavoro pubblico, sostenere le istituzioni che tutelano la concorrenza e chiedere contezza del loro lavoro, il rafforzamento e l’estensione della loro attività. Chiedere riforme strutturali che favoriscano la concorrenza tra le istituzioni: non è un modo di duplicare la spesa, ma è un modo di immettere la concorrenza nel pubblico, nel quale non vi sono economie di scala. Si tratta di avvicinare l’utente al controllo del centro di spesa pubblico, per esempio mostrando, quantomeno a livello informativo, i veri costi pieni del servizio reso dal settore pubblico (ho in mente la sanità: accanto al valore ticket, stampare e consegnare al paziente la cifra del costo pieno della prestazione richiesta). Si tratta di intervenire su tutti gli atti del governo – non solo nelle trattative di settore – mettendo sul piatto della bilancia il valore del lavoro e il metodo intrinseco di valutazione e misurazione: la concorrenza.
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