Difesa critica della comunicazione politica
05/06/2012
Il recente articolo di _Edoardo Boria,_ pubblicato sull’ultimo numero di _Limes,_ solleva una questione rilevante: i comunicatori politici sono in qualche modo corresponsabili della conclamata crisi della democrazia? La riflessione di _Andrea Ferrazzi._
di Andrea Ferrazzi
E’ passato (forse) inosservato l’articolo di Edoardo Boria, pubblicato sull’ultimo numero di Limes, la rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo. Eppure si tratta di un pesantissimo “j’accuse” nei confronti della comunicazione politica, la cui regressione sarebbe tra le cause dell’attuale stato di malessere della democrazia. Boria segnala una degenerazione della ricerca del consenso, non soltanto in occasione delle campagne elettorali. Dal momento che “le regole di funzionamento della democrazia inducono i corpi politici a impegnarsi per vendere al meglio se stessi e il proprio prodotto politico”, si può sostenere che “un ideale equivale a uno yogurt, a un dentifricio o a un suv”. Il “cittadino-consumatore” viene prima ipnotizzato per poi essere sedotto attraverso le tecniche “immorali” del marketing politico. “Siamo in presenza di una patologia della democrazia contemporanea”, scrive Edoardo Boria. E i rischi, avvisa, sono seri e da non sottovalutare. “L’indebolimento delle capacità critiche dei riceventi l’informazione – precisa – è ovviamente pericolosissima, e dimostra fino a che punto le tecniche di persuasione siano un pericolo per la democrazia”.
Anche se le argomentazioni di Edoardo Boria non sono sempre convincenti, il suo articolo solleva una questione rilevante: i comunicatori politici sono in qualche modo corresponsabili della conclamata crisi della democrazia, non solo italiana? A mio avviso, no. Qualche piccola colpa la possono anche avere. Ma sono altre le ragioni per le quali la democrazia, per dirla con Carlo Galli, si è ingrigita, tanto che la sua sopravvivenza è divenuta larvale. Non a caso, su questo tema c’è un ampio dibattito nella letteratura politologica. Scagliarsi contro la comunicazione politica, come fa l’autore, significa dunque sbagliare bersaglio. E, soprattutto, prospettiva. In particolare in riferimento alla “propaganda 2.0”. A questo proposito, Boria ritiene che, grazie a internet, i cittadini sono più informati e possono beneficiare di nuove forme di partecipazione alla vita pubblica. Ma è proprio per questa maggiore consapevolezza razionale delle questioni politiche, resa possibile dal web, che cresce nella popolazione il disincanto democratico. “Un cittadino più attento è anche più critico”, dice, e questo alimenta un pericoloso circolo vizioso: tanto più cala la fiducia nella politica-spettacolo, tanto più essa reagisce accentuando la tendenza alla spettacolarizzazione per tentare di destare interesse. Cittadini meglio informati e più critici, dunque. A scapito della democrazia.
E’ proprio così?
A mio parere, la riflessione di Boria parte da un presupposto errato. E’ vero che la rete offre maggiori possibilità di informazione e di comunicazione, ma è altrettanto vero che essa si è rivelata, come osserva Lovink, “un terreno fertile per le opinioni polarizzate”, “un campo di battaglia”, con “un’attitudine a distruggere il dialogo”. Non solo. Il web sta provocando effetti profondi anche sulle capacità critiche degli utenti-cittadini. “Internet ci rende stupidi”, secondo la famosa formula di Nicholas Carr. Nel senso che, per dirla ancora con Lovink, “se il web privilegia il tempo reale, c’è meno spazio per la riflessione e più tecnologia tesa a facilitare chiacchiere impulsive”. In questo senso, si può dunque dire che la “twitterizzazione” del dibattito politico incide negativamente sull’opinione pubblica e, di conseguenza, anche sull’efficienza dei nostri sistemi di governo democratici. E’ questo il vero circolo vizioso che contribuisce alla crisi della democrazia e contro il quale è giunto il momento di agire.