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Dopo l'attacco dell'Economist alla CSR: l'opinione di Roberto Zangrandi

25/01/2005
The Economist nel suo ultimo numero (vedi anche la nostra news mondo di questa settimana) definisce come fenomeno pericoloso per il capitalismo e il senso d'impresa la responsabilità sociale delle aziende. Copertina: La buona impresa, uno sguardo scettico sulla corporate social responsibility. Editoriale: "…messa semplicemente, i difensori della CSR partono dalla premessa che un capitalismo disadorno e senza fronzoli non serva all'interesse del pubblico...".  Esaustivo supplemento di 16 pagine con una sintesi fulminante del suo curatore, Clive Crook, vice direttore dell'Economist: "Da un punto di vista etico, molto della responsabilità sociale dell'impresa è solamente buona gestione, qualcosa che fa progredire l'azienda o che l'azienda dovrebbe comunque fare. Per questo non dovrebbe esserci alcun credito o riconoscimento speciale per chi la applica".Il settimanale descrive percorsi ed effetti della CSR secondo l'esperienza delle grandi imprese considerando la istituzionalizzazione che questa ha avuto nel Regno Unito. Il punto di vista è quindi molto British e, come tale, una certa tendenza a valutazioni un po' forfetarie è da tenere in considerazione. La CSR che aumenta sia i profitti sia il welfare sociale non è altro che buon management. Quella che riduce i profitti a favore del sociale è "virtù presa a prestito". L'azienda che decide di destinare parte degli utili alla filantropia fa come Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri: nobile gesto, ma furto comunque. L'influenza delle ONG internazionali e dei loro standard sulle imprese può essere nefasta. Adam Smith aveva già scritto tutto nel suo "La ricchezza delle nazioni", e così di seguito.Sicuramente però l'estensione del resoconto sullo stato dell'arte della CSR da parte dell'Economist ha il pregio di accordare alla tematica un'importanza e una visibilità planetarie, facendola uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori.D'altra parte, ne dimentica alcuni aspetti fondamentali. Le imprese che si danno una struttura di CSR e la fanno lavorare in maniera convinta vanno oltre il buon management: decidono di valutarsi e di essere valutate sulla loro capacità di superare quanto richiesto dal solo buon governo d'impresa. Il perseguimento della trasparenza nei rapporti con tutti gli stakeholder (dagli azionisti ai dipendenti, alle comunità), la tutela dell'ambiente e la capacità di migliorare i processi verso minori consumi ed emissioni sono un po' di più che "virtù presa a prestito". Probabilmente, le imprese che fanno della seria filantropia o del cause-related marketing che supera la manipolazione pubblicitaria e d'immagine per intervenire in modo strutturale in alcune aree del bisogno della società, non sono - come Robin Hood -  sempre e comunque responsabili di furto.La struttura razionalista dell'inchiesta di Clive Crook sull'Economist è splendida. Ma quando lancia il suo "sguardo critico sulla corporate social responsibility" tende a dimenticare che una grande massa di risparmio nel mondo (5 miliardi di dollari secondo alcune stime; di più secondo altre) chiede investimenti in aziende che certifichino la loro CSR, un orientamento sostenibile e qualcosa di più che "buon management". E chiede fatti dimostrabili e certificazioni che ormai hanno condizionato in misura notevole il modo di agire (in meglio) di molte aziende quotate, trasformandosi mano mano in comportamento se non ancora molto diffuso, almeno di riferimento.Roberto Zangrandi,Responsabile Corporate Social Responsibility, Enel S.p.A. 
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