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Fioccano i commenti sulla prolusione di Emanuele Invernizzi... Un corso di laurea in Scienze della R

24/02/2004

Toni Muzi Falconi e Giampietro Vecchiato prendono spunto dalla prolusione che ha aperto l'anno academico della Iulm.

ECCO IL COMMENTO DI TONI MUZI FALCONI:La prolusione di Invernizzi all'inaugurazione dell'anno accademico della IULM, in occasione del decimo anniversario del corso di laurea in relazioni pubbliche, è un evento rilevante che resta nella storia delle relazioni pubbliche Italiane.Ci sono voluti dieci anni perché la Iulm prendesse sul serio l'originale intuizione dei fondatori Baridon, Roggero e Alberoni per riconoscere legittimità scientifica alle relazioni pubbliche, dedicando ad esse una prolusione di anno accademico.In estrema sintesi, Invernizzi afferma:

il ruolo delle rp è fortemente cresciuto nelle organizzazioni;
la pratica del modello press agentry legata a quella che l'autore definisce ‘immagine' (intesa come somma di caratteristiche distintive esteriori dell'organizzazione) è stata superata dal modello della ‘reputazione' (intesa come integrazione dell'immagine e degli effettivi comportamenti dell'organizzazione);
che questo superamento è un ‘mutamento di paradigma' delle stesse relazioni pubbliche;
un mutamento però, dice l'autore, che incappa in un ‘paradosso', poiché se è anche vero, come dice Grunig, che le relazioni pubbliche non ‘incidono' direttamente sulla reputazione (risultato di tanti fattori non controllabili), è anche indispensabile aggiungere al ruolo del relatore pubblico nuove e rilevanti competenze sia manageriali che strategiche;
concludendo, l'autore sostiene che le migliori relazioni pubbliche sono quelle che... non si fanno... quelle cioè che influenzano le decisioni dei comportamenti dell'organizzazione (ruolo strategico). E questa affermazione è confermata dalla presenza sempre più frequente del relatore pubblico al tavolo della 'coalizione dominante' delle organizzazioni.
A me pare difficile condividere la logica complessiva di questo impianto:

In tutti i Paesi ove esistono, gli studiosi indicano che le relazioni pubbliche sono da interpretare nel contesto di una teoria sistemica che postula una organizzazione che sviluppa relazioni con i suoi pubblici influenti per raggiungere gli obiettivi perseguiti con maggiore efficacia.Nel testo della prolusione, il termine ‘relazioni' appare in un solo punto ed è riferito alla relazione interpersonale: sicuramente molto importante, ma solo una delle dimensioni in cui si sostanzia un sistema di relazioni, la più rilevante essendo peraltro quella che relaziona l'organizzazione con i suoi pubblici influenti.
E' sicuro che il paradigma (così lo definisce Invernizzi) della press agentry/immagine è superato... ma da molti decenni, a sua volta superato poi dal modello della ‘persuasione scientifica' di Ed Bernays che ha dato luogo alle ricerche sociali e sui consumi, al marketing e all'applicazione della sociologia e della psicologia alla comunicazione.Se però parliamo di pratica quotidiana, non solo il modello press agentry è vitalissimo, ma se possibile, è ancora cresciuto... da quando ogni leader di organizzazione, sociale, religiosa, economica, politica, pubblica... aspira alla visibilità (parlatene... anche male ma parlatene sempre...). E' quella che si chiama la 'piombodipendenza' della nostra classe dirigente.
La scuola della reputazione - inventata da alcune agenzie americane nei primi anni novanta come alternativo 'sarchiapone consulenziale' in sostituzione della miseramente fallita cultura dell'immagine degli anni ottanta - è stata da circa un decennio importata in Italia come reazione alle ricadute negative del mercato post-tangentopoli. Fra i tanti, il suo maggiore limite è che non fornisce all'organizzazione alcun strumento di governo.E dunque, più che un 'paradosso' a me pare una contraddizione.Si aggiunga che la scuola della reputazione è incoerente sia con la linea europea che poggia sulla ‘sfera e sull'interesse pubblico' (lavorare in pubblico, per il pubblico, con il pubblico) che Invernizzi sottolinea citando il Bled Manifesto; sia con la teoria della comunicazione simmetrica e a due via avviata da Grunig, che ancora Invernizzi cita diffusamente.
Infine - ed è forse il suo maggiore limite - la prolusione non tiene conto che la questione oggi cruciale per i relatori pubblici è fornire una risposta convincente agli stakeholder che chiedono accountability (committenti, datori di lavoro, processo decisionale pubblico, media, studenti e attivisti sociali). Accountability rispetto all'interesse pubblico (e Invernizzi giustamente sottolinea il ruolo della comunicazione della responsabilità sociale), sia rispetto alla inadeguata gestione manageriale delle risorse che in relazioni pubbliche vengono con sorprendente crescita investite dalle organizzazioni.Ancora nel 1994 Kaplan e Norton (Harvard University Press) dicevano:non puoi gestire quello che non puoi misurare e non puoi misurare quello che non puoi descrivere.
Se - come suggeriscono la maggior parte degli studiosi e la sua stessa denominazione (relazioni pubbliche) - la nostra professione va interpretata come 'governo delle relazioni' (stakeholder relationship management o, come preferisco io, gorel) e il ruolo sia strategico che manageriale dei relatori pubblici poggia anche sulla loro capacità di valutare e misurare output e outcome di quel che fanno... allora il vero paradosso è nella legittimazione di strade che non questi temi affrontano e che lo stesso Invernizzi afferma essere prioritari.Insomma ciò che mi lascia insoddisfatto di questo pur pregevole e importante lavoro, è che se il supposto nuovo ruolo del relatore pubblico è quello di ‘influenzare' la coalizione dominante sul cosa fare (una sorta di ethics officer?), quasi che questo per definizione non spettasse per definizione a ciascun componente di quella coalizione, si finisce per relegare in secondo piano la fondamentale questione del come comunicare e, più ancora, del come valutare e misurare i sistemi di relazione che proprio dalla comunicazione simmetrica e a due vie traggono linfa.Va piuttosto affermato con forza che il principale valore aggiunto del relatore pubblico è tecnico: deve saper comunicare. Quando più relatori pubblici lavorano insieme è necessario che qualcuno di loro assuma un ruolo manageriale e quindi sappia anche rendere conto alla coalizione dominante delle risorse umane e finanziarie che gestisce. Quando poi questi due ruoli sono svolti con competenza ed efficacia, arriva il ruolo strategico, ma non può essere sostitutivo.Affermare che le relazioni pubbliche si occupano principalmente di reputazione influenzando i comportamenti è una ‘fuga in avanti' eccessivamente autoriferita e poco utile all'organizzazione.Toni Muzi Falconi
ECCO IL COMMENTO DI GIAMPIETRO VECCHIATO:Un corso di laurea in Scienze della Reputazione?Condivido in toto l'interessante prolusione di Emanuele Invernizzi all'apertura dell'Anno Accademico dello IULM. Con qualche precisazione e/o richiesta di chiarimenti. Gli altri punti sono riflessioni a voce alta.

In alcuni passaggi il ruolo strategico assegnato alla disciplina non è sufficientemente affiancato da "reali" compiti operativi. Infatti, quando diventano "strategiche", le relazioni pubbliche si trasformano in "reputazione". Ma "ottenere una buona reputazione" non è un compito delle RP? Se questa è la vision a quando un corso di laurea specialistico in reputazione?
Sembra quasi che le Relazioni Pubbliche (e pensare che non sono particolarmente attaccato a questo termine!) contengano al loro interno elementi e comportamenti peccaminosi, falsi, innominabili, occulti, antidemocratici e legati alla corruzione. Io credo invece che ci siano professionisti bravi e professionisti delinquenti nelle stesse % riscontrabili nelle altre professioni.
In alcuni passaggi (ma forse non era possibile dato il contesto) mi avrebbe fatto piacere leggere il ruolo della FERPI che trovo citata solo quando si tratta di presentare un lavoro seguito e gestito direttamente dallo IULM. Io non ero in FERPI quando si parlava molto di immagine e poco di contenuti; ma non credo sia corretto far partire la vita della FERPI solo dal momento in cui ne condividiamo tutte le strategie.
I 4 modelli cui fa riferimento Invernizzi non sono il frutto di una crescita temporale (lo sono solo in parte), ma la fotografia dei diversi approcci alla disciplina. In altre parole non esiste, almeno per ora, un "quinto" approccio alle RP basato sulla reputazione.
Non condivido la classificazione secondo la quale il quarto modello di Grunig è il migliore mentre l'approccio press agent è scorretto e sbagliato. In una "visione sistemica" non esiste un'unica strada per raggiungere un obiettivo. Come sempre si tratta di valutare il miglior rapporto costi-benefici. Se invece vogliamo leggere la questione di tutti gli approcci con le lenti della trasparenza e dell'etica, allora le cose cambiano. Ma non si tratta di dare giudizi, né sommari né morali. Si tratta di effettuare delle scelte e su quelle provare a trovare dei clienti disponibili a pagarti. Tutto qui. L'etica è personale, volontaria e non può essere imposta per legge.
 

L'etica ed il bilancio sociale non sono strumenti di comunicazione. O meglio: sono "anche" strumenti di comunicazione. Devono innanzitutto diventare parte integrante della vita aziendale, non strumenti che si attivano solo quando essa ha una brutta reputazione. Anche la CSR deve appartenere all'essere e non all'apparire; all'identità e non all'immagine.
Avere una buona reputazione non è quindi né una strategia né uno strumento: è un obiettivo da perseguire per il successo e la stessa sopravvivenza dell'impresa.
Se penso di poter cambiare la mia reputazione con una campagna di RP faccio lo stesso errore commesso con l'immagine. Usare il termine "immagine" non è scorretto; diventa scorretto quando si riferisce esclusivamente a qualcosa di esteriore, di facciata e non di sostanziale, di autentico. Ricordiamoci che la Parmalat prima del 4 dicembre godeva sia di una buona immagine che di una buona reputazione.
Il vero cambio di paradigma non è quindi legato all'uso di una parola piuttosto che un'altra. E' legato alla sincerità, all'autenticità e alla trasparenza dei comportamenti e delle azioni. Molto spesso si vuole invece comunicare qualcosa di diverso da quello che si è realmente, con la speranza di non rivelarsi né di essere scoperti (vedi finestra di Jo-Hari).
La risposta alla domanda : "Come è possibile che aumenti l'importanza delle RP cambiando la loro finalità dall'immagine alla reputazione?" si può leggere tra le righe delle conclusioni di Invernizzi. Questa la mia interpretazione: se realmente la professione fa parte della coalizione dominante può incidere sui comportamenti e sulle modalità operative e gestionali. Se invece, come succede nella stragrande maggioranza dei casi, non fa parte della coalizione dominante, il professionista è costretto a lavorare su "commessa", su obiettivi/messaggi decisi da altri e a lui assegnati per essere comunicati/trasferiti all'esterno. E' evidente che in questo caso il rischio di operare solamente su questioni marginali e di immagine è dietro l'angolo.
Ma in questo caso, chi è allora il direttore d'orchestra della comunicazione aziendale? Il pubblicitario? Il PR? Il responsabile della comunicazione interna? Io credo sia indispensabile: a) ri-dare unitarietà strategica alla comunicazione d'impresa; b) evidenziare in tutte le funzioni aziendali (dall'addetto al MKT al responsabile della produzione; dal responsabile dell'ufficio amministrazione al commerciale; dal portiere all'AD) le competenze di comunicazione e, soprattutto, le abilità relazionali.
Non vorrei quindi che, da una parte, si aprisse la vecchia e sterile diatriba con i pubblicitari su chi debba guidare e coordinare la comunicazione aziendale (un buon "generalista"?); dall'altra, prevedere solo funzioni iper-specialistiche, dove ci sarà bisogno anche di un responsabile della reputazione.
In questa direzione condivido le ipotesi di Kotler e di altri studiosi americani secondo i quali il marketing e le RP sono destinate a fondersi. Non a eludersi, ma a fondersi. Rispetto alla pubblicità infatti, le RP possono occuparsi di prodotto (marketing pr), ma sicuramente la pubblicità non può occuparsi né di relazioni né di reputazione (ma può lavorare su campagne di comunicazione istituzionale). Tutte le aziende si guardano bene dall'affidare ad un "creativo" le loro strategie relazionali! Un addetto alle RP non può non essere aperto, collaborativo, negoziatore. Ecco perché le RP dovranno sempre più occuparsi anche di strategia, perché, come afferma TMF dovranno sempre più occuparsi del governo delle relazioni. Per questo l'addetto alle RP entrerà giocoforza nella coalizione dominante; la pubblicità invece sarà sempre costretta (non me ne vogliano i pubblicitari!) a concentrarsi sul prodotto.
Condivido quindi con Invernizzi la necessità di nuove figure professionali (soprattutto "generaliste"; il direttore d'orchestra) con compiti di governo e di coordinamento strategico della comunicazione. Questa necessità non riduce lo spazio alle RP né vanno confusi i due ruoli. Come deve essere altrettanto chiaro che la direzione che si occuperà di comunicazione si chiamerà Direzione Comunicazione e non Direzione RP. Cogliere questo cambiamento è un problema urgente e immediato per le Università e le agenzie formative, meno urgente per la FERPI. Si tratta di ipotizzare un percorso formativo per una nuova figura professionale, non più specializzata, ma "integrata o globale" come si diceva negli anni '90.
Nelle aziende avremo quindi una Direzione Generale della Comunicazione che non potrà non essere integrata (ma allora che senso ha cambiare nome alla professione di RP? Corporate communication o Manager Communication definiscono funzioni sovrastrutturali che non sostituiscono né esauriscono la funzione di relazioni pubbliche!) e che sarà affiancata da altre figure specializzate che si occupano di pubblicità, di RP, di promozioni, di media relations, di eventi, di crisis communication, di comunicazione finanziaria, ecc. L'evoluzione di un PR particolarmente motivato e competente potrebbe quindi essere anche quella di occupare lo scalino più alto della comunicazione.
La comunicazione dovrà essere integrata sia nella direzione verticale (pubblicità, RP, promozioni, direct marketing) che orizzontale (comunicazione istituzionale, interna, commerciale e finanziaria).
Le RP sono interessate a fare questo salto? Quanti colleghi professionisti della FERPI sono in grado di occuparsi di comunicazione strategica? Qual è, in questo caso, il compito di chi lavora nelle Agenzie?
Probabilmente anche il corso di laurea dello IULM dovrà cambiare nome perché dovrà rispondere a questa nuova richiesta del mercato e contemporaneamente sfornare, da una parte, bravi PR e, dall'altra, bravi Pubblicitari.
La suddivisione dei corsi di laurea in 3+2 potrebbe essere di grande aiuto per dare risposte alle nuove esigenze delle imprese. Il +2 potrebbe infatti sfornare sia iper-specializzati che manager da destinare all'area strategica e che quindi dovranno conoscere tutti gli strumenti di comunicazione ma anche avere conoscenze, competenze e abilità non superficiali di economia, management, marketing e organizzazione, ecc.
A Firenze avevamo concordato di non rendere pubblica la questione certificazione (vedi endorsement) per gli atenei italiani di RP e comunicazione o mi sbaglio?
ConclusioniGrazie a Invernizzi per avermi dato l'opportunità di riflettere sulla professione e sulle sue prospettive. Una prolusione piena di stimoli e di sollecitazioni. Un invito ai colleghi FERPI: non aspettiamo il prossimo Anno Accademico per discutere della nostra professione! Grazie a TMF per aver sollecitato questo dibattito. Grazie a Voi per la pazienza di avermi letto.Padova, 23 febbraio 2004Giampietro VecchiatoConsigliere Nazionale FERPI 
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