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Genti diverse, nuova comunicazione

14/06/2005

Un articolo di Franco Carlini sul WPRF uscito sul Manifesto di domenica 12 giugno (rubrica Chip&Salsa).

Da Il Manifesto.I comunicatori usano la diversitàPer avere successo nelle relazioni pubbliche e nella politica, arti della parola per eccellenza, bisogna valorizzare le differenze di un gruppo e non reprimerle. Il vero leader ascolta tutti e mette in luce i conflitti. A Trieste, dal 28 al 30 giugno, il «World Pr Festival», la kermesse mondiale di quelli che comunicano per professione.FRANCO CARLINIRacconta Riccardo Illy, presidente della regione Fiuli-Venezia Giulia: «Mio nonno è arrivato a Trieste negli anni trenta dall'Ungheria. Mia nonna era mezza irlandese e mezza boema. E questo è un destino comune a molta gente in una città dove oggi vivono circa 70 mila istriani e 70 mila friulani, che sembra nata apposta per mescolare genti diverse». (Prima Comunicazione, aprile 2005). Genti diverse appunto e dunque non è per caso che Trieste è stata come sede di un incontro internazionale sulle diversità. E' il Word Pr Festival, organizzato dalla più grande organizzazione internazionale dei comunicatori pubblici e si svolgerà il 28 al 30 giugno ("Comunicare per la diversità, con la diversità, nella diversità"). Apparentemente è la fiera del politicamente corretto e del socialmente responsabile e in parte è certamente vero. Gli uomini e le donne delle Pr (Relazioni Pubbliche) operano specialmente per conto di imprese e istituzioni e si sono ben resi conto che il mondo d'oggi è fatto di pubblici diversi (non più un solo pubblico, indifferenziato), di mercati segmentati all'estremo (fino al prodotto individualizzato), di linguaggi e culture molteplici, condannate a incontrarsi, se del caso a scontrarsi. E multipli sono anche i lavoratori, specialmente nei paesi di più antica multiculturalità come gli Stati Uniti da un lato e il Sud Africa dall'altro; non per caso proprio dal paese di Mandela arriveranno a Trieste diversi relatori con la tradizione e la ricchezza del loro meticciato.Anche se pochi in Italia ne sono consapevoli, è ormai da anni che alcune delle più grandi e note corporation multinazionali hanno messo in opera specifici programmi interni per la «Diversity». Vale per la Ibm come per Citigroup (che porteranno all'incontro le loro testimonianze) e per molte altre. Nei casi migliori e non autopropagandistici, sono andati al di là delle classiche politiche di pari opportunità per la forza lavoro, ponendosi invece il problema di come la diversità delle culture nella popolazione dei dipendenti potesse divenire un fattore di successo rispetto alla concorrenza. Forse è un atteggiamento cinico e tuttavia sensato dal punto di vista dell'industria: visto che la diversità esiste e che non c'è più il fordismo che poteva azzerarla, come trasformarla in sorgente di successo anziché di conflitti interni?Insomma, le politiche della Diversity rientrano nella Corporate Social Responsability, terreno ambiguo, contestato da alcuni ultralibertisti, ma certamente forma moderna di welfare d'impresa. Con alcune significative novità, peraltro, rispetto al passato.Intanto il ruolo delle tecnologie digitali della comunicazione, le quali potenziano e abilitano modalità nuove di valorizzazione delle persone: che stiano letteralmente dilagando (ma non in Italia) i weblog aziendali è uno dei segni interessanti del momento. Essi sono strumento di identità di gruppo, di esplicitazione e gestione dei conflitti, ma anche di creazione di conoscenza comune. In un libro recente, Why Great Leaders Don't Take Yes for an Answer (ovvero «Perché i grandi leader non prendono il Sì come una risposta»), Michael Roberto, specialista in organizzazione aziendale e in teorie della decisione, spiega come la virtù principale del vero leader non stia nell'ottenere dei conformistici e facili consensi dei subalterni (cui, altrettanto facilmente, non seguiranno adeguati comportamenti), ma nel saper dare voce e spazio ai conflitti che inevitabilmente ci sono, magari sotterranei, in ogni organizzazione (se si volessero fare dei paragoni politici, tra la ricerca affannosa di Sì incerti da parte di Fassino e la spinta di Prodi a far emergere i dissensi nell'Ulivo, il leader sarebbe il secondo).L'analogia con la biodiversità come risorsa preziosa è altrettanto evidente, anche se a Trieste non se ne parlerà: le monoculture agricole, così come quelle aziendali, possono andare bene finché l'ambiente è stabile; in tal caso si sfruttano al massimo i prodotti (o le sementi) che si sono consolidati del tempo, non curandosi delle varianti minori più o meno selvatiche. Ma quando cambia il clima, magari quel seme si rivelerà non più adatto (quel prodotto verrà respinto dal mercato) e allora potrà prosperare solo chi abbia tenuto in serbo e imparato ad usare altre varietà.La disperata politica repressiva dei difensori del copyright digitale, terroristica nei toni e nelle azioni, è esattamente uno di questi casi: vedendo cambiare sotto il loro naso le modalità di consumo e il supporto della musica, gli ultimi combattenti delle major musicali esercitano una pressione fortissima sui legislatori per ottenere leggi sempre più repressive quanto inutili e considerano il loro pubblico un esercito di delinquenti - che non è esattamente il modo migliore per fidelizzarlo. Prendono un bene comune, qual è la conoscenza e lo vogliono recintare per l'eternità, alla faccia dei diritti degli autori e dei consumatori di musica. Sconvolte dalla diversità dei produttori indipendenti e dei bit che corrono liberi, le grandi case camminano inquadrate verso il baratro. Ma peggio per loro, dato che di loro il mondo può ormai fare benissimo a meno.
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