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I costi della non comunicazione

17/04/2013

Uno dei problemi che da sempre caratterizza le Rp è quello della loro collocazione tra le discipline del management. Cosa dire alle organizzazioni per far loro comprendere il valore aggiunto della comunicazione? Secondo _Giampietro Vecchiato,_ ricorrere alla negazione potrebbe rendere più semplice dare una definizione ed illustrare il valore della disciplina anche ai non addetti ai lavori.

di Giampietro Vecchiato
“Non tutto quello che conta può essere contato e non tutto quello che può essere contato, conta”. (Albert Einstein)
Il valore dell’identità
Secondo Giovanni Costa (Professore emerito all’Università di Padova), che fa riferimento agli studi di Marc Augé sulle negazioni, il valore dell’identità si capisce meglio partendo dalla sua negazione. Uno dei problemi che da sempre (anche se con significative inversioni di tendenza negli ultimi 15 anni) caratterizza le Relazioni pubbliche è quello della loro identità e definizione. In altre parole della loro collocazione e istituzionalizzazione tra le discipline del management.
L’obiettivo di queste considerazioni iniziali è quello di riflettere su una questione che è così sintetizzabile: come e, soprattutto, che cosa dire alle aziende/organizzazioni (pubbliche e private, profit e non profit), per far loro comprendere il reale valore aggiunto (sia in termini reputazionali che economici) apportato dalla disciplina e dalla professione. Da anni, mondo accademico e mondo professionale cercano di definire che cosa siano le RP e in che cosa consista la professione di relatore pubblico. Oggi è ancora più difficile orientarsi sul significato e sul termine Relazioni pubbliche perché una comunicazione spesso pervasiva (ma anche ambigua e opaca), unita ad una cultura effimera dell’immagine, potenziate esponenzialmente dalla rete, hanno provocato tali e tanti cambiamenti proprio sugli elementi costitutivi della disciplina: gli strumenti e la metodologia utilizzata per raggiungere gli obiettivi dichiarati. Tante sono le difficoltà incontrate in questo percorso anche se, negli ultimi anni, i lavori di Emanuele Invernizzi e Stefania Romenti (in Italia), di Euprera e Global Alliance (nel mondo), hanno fatto un po’ di chiarezza.
Anche la definizione recentemente adottata da Global Alliance – secondo la quale Public relations is a strategic communication process that builds mutually beneficial relationships between organizations and their publics va sicuramente nella direzione della semplificazione e della chiarezza concettuale. Secondo Giancarlo Panico alla definizione è importante aggiungere altri due elementi: “Le Rp non sono più un’attività meramente tecnico-operativa (perlomeno non solo) come è stato per quasi un secolo, ma assumono il ruolo di funzione strategica e di governance (da gestire con modalità manageriali) finalizzate a creare relazioni reciprocamente utili fra le organizzazioni e i loro pubblici in un’ottica di sostenibilità e di rendicontazione permanente".
Nonostante tutto, quando un professionista incontra un potenziale cliente (ma la stessa difficoltà si incontra spesso anche con il management e con il mondo accademico) è difficile spiegare, in modo chiaro ed esaustivo, che cosa è e a che cosa serve la professione di PR. Ancora troppo spesso si ricorre ad una negazione: le relazioni pubbliche NON sono il marketing, NON sono la pubblicità, NON sono le promozioni, ecc. Nella migliore delle ipotesi ci si affida all’elencazione degli strumenti, della cassetta degli attrezzi: eventi, media relation, lobby, CSR, ecc. Sorge spontanea una domanda: non potrebbe essere più semplice ed efficace per definire le Rp e spiegarne l’utilità, utilizzare la negazione, il contrario, l’opposto? Non potrebbe essere più semplice partire dagli effetti negativi che hanno sulle persone e sulle organizzazioni una cattiva reputazione, le difficoltà di comunicazione, un governo delle relazioni poco efficace o una perdita di credibilità e di fiducia? Sembra quasi che il valore delle buone relazioni con i pubblici sia più facilmente comprensibile attraverso una perdita o attraverso i maggiori costi della NON comunicazione.
Ripensare le 4P
R. Etterson, E. Cornado e J. Knowles, in un loro recente articolo pubblicato dall’ Harvard Business Review, affermano sia giunto il momento di rinnovare gli strumenti del marketing – a partire dalle 4P – per adattarli all’odierna realtà del mercato, soprattutto quando facciamo riferimento al B2B. Per quasi un secolo le categorie di prodotto, prezzo, posizione e promozione hanno rappresentato un valido quadro di riferimento per inquadrare il marketing mix. Oggi però – affermano gli autori – le strategie mirate al prodotto che ne discendono entrano sempre più in contrasto con l’imperativo di fornire soluzioni.
Non che le 4P abbiano perso importanza. Si tratterebbe di reinterpretarle in una nuova ottica: spostare l’attenzione dal prodotto/servizio (nel nostro caso dalla definizione e dagli strumenti delle RP) ai bisogni che le attività di RP soddisfano (gli effetti negativi di un mancato governo delle relazioni con tutti gli stakeholder, i pubblici influenti, i destinatari finali). Pioniere di questo nuovo approccio è stata Motorola Solution che l’ha utilizzata per ristrutturare la propria strategia di marketing a partire proprio dalla prima “P”, quella di prodotto. Il management ha infatti incoraggiato una mentalità orientata alle soluzioni nell’intera organizzazione. In altre parole è stato chiesto a tutti di passare da una visione basata sulla produzione di prodotti e servizi sempre più competitivi e tecnologicamente superiori ad una basata sulle prospettive e sulle esigenze del cliente. La prospettiva cliente-centrica comporta una radicale riorganizzazione delle competenze: dalla creatività al prodotto/servizio; dal marketing alle vendite; dalla promozione alla comunicazione. La nuova visione non propone prodotti o servizi, ma soluzioni.
I bisogni dei clienti e le soluzioni proposte dalle RP
Per comprendere il significato e le possibili implicazioni per le RP di questo cambio di paradigma, proviamo a fare alcuni esempi nei quali un danno alla reputazione, un’informazione scarsa, ambigua o poco tempestiva, una incompleta mappa dei pubblici di riferimento, un inadeguato governo delle relazioni con gli stakeholders, può creare un danno all’impresa e all’organizzazione.
I costi della non comunicazione. Alcuni esempi.

I mass media pubblicano una notizia non vera o inesatta relativa all’attività dell’azienda (che potrebbe anche coinvolgere la proprietà o il management).
Il sindacato proclama uno sciopero sulla base di voci e rumors che, da alcuni giorni, alimentati da blog anonimi, coinvolgono l’azienda e le sue strategie ambientali.
Circola voce che l’azienda non sia fonte attendibile di conoscenza e di sviluppo delle competenze: i giovani talenti non la cercano e i migliori collaboratori cercano di passare dalla concorrenza.
La business community ha scarsi rapporti con la nostra azienda che, di conseguenza, ha difficoltà nel trovare fornitori eccellenti e partner con i quali collaborare e fare rete.
Le istituzioni bancarie non considerano veritiero e attendibile il business plan presentato per lo sviluppo di un nuovo prodotto/servizio.
Alcuni opinion leader e gli stakeholder, non conoscendo gli obiettivi e le strategie dell’azienda, si oppongono ad un ampliamento dello stabilimento.
In azienda, tra le diverse funzioni organizzative, ci sono difficoltà di comunicazione, con conseguenti incomprensioni e conflitti.
Tra i dipendenti c’è uno scarso spirito di gruppo e poca motivazione; dominano la demotivazione e la conflittualità.
L’azienda è incapace di comprendere e interpretare il mondo esterno ed i suoi cambiamenti.
La divisione commerciale lamenta scarso appeal e poca visibilità/notorietà del brand aziendale; alcuni prodotti/servizi sono obsoleti e andrebbero riposizionati.
L’azienda è diventata il bersaglio di alcuni siti internet e blog a causa di una ristrutturazione aziendale.

Fonte: Professioni e Imprese 24
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