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Il falso mito della democrazia 2.0

20/09/2012

E’ davvero auspicabile vivere in un Paese dove la democrazia diretta manda in soffitta la democrazia rappresentativa, dove i temi più significativi vengono decisi con un referendum on line? E’ il quesito che si pone _Andrea Ferrazzi_ alla luce dell’attualità politica e dell’approssimarsi delle elezioni.

di Andrea Ferrazzi
Cresce l’attenzione nei confronti della «democrazia 2.0», ovvero di un sistema che permetta ai cittadini di esprimersi – via web – su molte se non tutte le questioni di interesse pubblico. Ad iniziare dalla scelta dei candidati. Beppe Grillo, il comico prestato alla politica, annuncia che i candidati del Movimento 5 Stelle saranno scelti on line. Dai cittadini-utenti-elettori. Dunque, solo per questo, avranno una maggiore legittimità rispetto a quelli dei partiti tradizionali, designati dalle segreterie senza passare al vaglio del voto. La democrazia diretta come mezzo per spazzare via il vecchiume della politica e, con esso, l’intera classe dirigente. Questo vuole il M5S, ma non solo.
Che la rete possa essere uno strumento utile a rinnovare dal basso la democrazia è un’idea sempre più diffusa. Internet come spazio aperto di partecipazione interessata, informata e consapevole. Di questo parla, ad esempio, anche Marco Magrini, su Nòva, l’inserto de Il Sole 24 Ore uscito domenica 16 settembre. Ma è davvero auspicabile, come lascia intendere l’autore, vivere in un Paese dove la democrazia diretta manda in soffitta la democrazia rappresentativa, dove i temi più significativi vengono decisi con un referendum on line? A mio avviso, no. E non tanto per il rischio, evidenziato nell’articolo, che qualche hacker violi la sicurezza del sistema e stravolga la volontà popolare. Il pericolo, vero, è un altro: un eccesso di democrazia diretta, soprattutto se costruita sulle fondamenta d’argilla del web. Non accusatemi di blasfemia, né tanto meno di luddismo: contestare un cyber-utopismo tanto ingenuo quanto pericoloso non significa essere contro l’innovazione tecnologica. Si tratta, semplicemente, di mantenere un minimo di spirito critico, evitando di rimanere accecati dalla fede incondizionata sulle proprietà taumaturgiche della Rete.
Il rapporto tra Internet e democrazia presenta, infatti, alcune criticità. Penso, ad esempio, alla polarizzazione e alla frammentazione che contraddistinguono le discussioni online. Discussioni per modo di dire, visto che si svolgono prevalentemente in «camere di risonanza», dove accedono quasi esclusivamente individui con le stesse opinioni che, consapevolmente o meno, si sottraggono al confronto con chi la pensa in modo diverso. Una tendenza, questa, rafforzata anche da quella che Eli Pariser – pioniere dell’attivismo politico online e dirigente di MoveOn.org, l’organizzazione progressista che ha dato un contributo determinante nella campagna per l’elezione di Barack Obama – chiama la «bolla dei filtri», ovvero il personale bagaglio di informazioni all’interno del quale si vive quando si è online. Da questo punto di vista, l’adattamento del flusso di informazioni alla nostra identità porta alla graduale scomparsa dell’esperienza comune, con conseguenze negative sul discorso politico e, quindi, sul funzionamento delle istituzioni democratiche.
C’è poi un’altra questione di cruciale importanza: la rete favorisce davvero la formazione di un’opinione pubblica più informata e, quindi, un’eventuale partecipazione consapevole dei cittadini alle decisioni di interesse pubblico? Temo che abbia ragione il massmediologo Geert Lovink, quando afferma che «la cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è disintegrata in un’inondazione di disinformazione». Sottoposta a un continuo bombardamento di stimoli, la mente delle persone tende infatti a valutare le informazioni non in base alla veridicità e alla rilevanza, bensì privilegiando le più attuali e, su suggerimento degli algoritmi, le più popolari. Su questo, coloro che aspirano alla realizzazione di un sistema di democrazia diretta attraverso l’utilizzo del web dovrebbero riflettere attentamente.
Allo stesso modo, dovrebbero riflettere attentamente anche su un altro aspetto: l’eccessiva partecipazione cibernetica rischia di condizionare negativamente l’azione di leader politici, resi schiavi delle infinite voci del web. «Leggi i sondaggi, segui i blog, tieni conto dei messaggi che appaiono su Twitter e degli stati su Facebook e dirigiti esattamente là dove si trovano gli altri e non dove pensi che dovrebbero andare. Ma se tutti “seguono”, chi dirige?», si chiede l’editorialista del New York Time, Thomas L. Friedman. Che aggiunge: «Quando si dispone di tecnologie che facilitano reazioni e giudizi rapidi e immediati, e quando si ha a che fare con una generazione abituata a ricevere gratificazioni istantanee – ma ci si trova a dover affrontare questioni complesse, come l’attuale crisi creditizia o la mancanza di posti di lavoro o l’esigenza di costruire da zero i Paesi arabi – si è alle prese con una notevole discrepanza – nonché una sfida per la leadership». E per la democrazia, il cui stato di salute, già precario, potrebbe aggravarsi se ricorressimo alla terapia sbagliata.
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