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Informazione e cultura nella network society: il ruolo delle relazioni pubbliche

20/09/2010

Dal palcoscenico internazionale del Prix Italia emerge il ruolo strategico e di mediazione delle relazioni pubbliche nell'industria della cultura e per il mondo dell’informazione. L’intervento di _Toni Muzi Falconi_ al convegno organizzato da Ferpi.

Il ruolo delle relazioni pubbliche e’ diventato fondamentale e strategico nella società a rete, tipica del nostro tempo e del rapporto fra chi produce cultura e informazione (media e istituzioni culturali) e chi rappresenta gli interessi delle organizzazioni (professionisti delle relazioni pubbliche). La prospettiva è quella di una società globale sempre più reticolare dove il valore prodotto dalle organizzazioni risiede principalmente nella qualità delle loro relazioni con i pubblici che agevolano od ostacolano il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. E’ quanto e’ emerso dal convegno Informazione e cultura nella network society: il ruolo delle Relazioni Pubbliche promosso da Ferpi mercoledì 22 settembre nell’ambito del Prix Italia. Il convegno aperto dagli interventi di Elisa Greco, Amanda Succi, Giovanna Milella, e i contributi di Anna Martina e Eric Reguly, si e’ concluso con l’intervento di Gianluca Comin. Riproponiamo l’intervento integrale di Toni Muzi Falconi
Toni Muzi Falconi
Nella nostra connettività globale 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, i network sono ormai una componente “core” della società contemporanea… e, naturalmente, di una gran parte delle persone e delle organizzazioni pubbliche, private, sociali e miste.
E’ certo vero che i network, sia sociali che organizzativi, sono sempre stati rilevanti nella Storia; ma esiste ampio consenso interdisciplinare che una delle caratteristiche portanti dell’oggi stia nella discontinuità indotta dalla connettività (de)strutturata che si osserva nei network non più lineari e sovente immateriali.
Da una prospettiva organizzativa, quel consolidato processo di pianificazione strategica sviluppato a partire dalla fine degli anni settanta, fondato sulla catena del valore di Michael Porter dell’Università di Harvard, viene oggi almeno integrato, quando non sostituito, da un altro processo manageriale che si fonda sui value network, questo sviluppato soprattutto dalla scuola di pensiero manageriale scandinavo (spicca il lavoro dello svedese Sven Hamrefors).
Quest’ultimo paradigma, relativamente nuovo, riconosce che una parte importante del valore oggi prodotto dalle organizzazioni è generato da reti di relazioni intangibili e non lineari che sovvertono la tradizionale distinzione fra pubblici interni ed esterni. I componenti di queste reti svolgono ruoli e producono valori più definiti dalla qualità delle loro relazioni con gli altri, che non dai tradizionali ruoli formali e gerarchici.
Per essere più chiari, pensate solo al valore aggiunto che molte organizzazione creano oggi per via delle crescenti interazioni e collaborazioni fra, per esempio, produttori e fornitori o fra produttori e utenti, ricordando sempre però il processo è fuzzy.
Tra l’altro, considerate per un momento come lo stesso settore della comunicazione (che include sia i media broad che narrowcast, sia le relazioni pubbliche) viene oggi influenzato da questa immaterialità e non linearità globale dei network di relazione.
La professione che, ormai da oltre 100 anni, afferma di volere assistere le organizzazioni nella sviluppo di relazioni più efficaci con i loro pubblici chiave (stakeholder) si chiama relazioni pubbliche, nella sua autentica interpretazione di relazioni con i pubblici… e non in pubblico.
In questi anni due decenni, il corpo di conoscenze delle relazioni pubbliche (e la sua pratica professionale) si è arricchito delle competenze necessarie per valutare la qualità di una relazione, così come anche il valore monetario della marca.
Nel primo caso, studiosi e professionisti condividono che la qualità di una relazione risiede nella reciproca percezione fra i soggetti di quattro indicatori chiave: fiducia, equilibrio di potere, soddisfazione e impegno nella relazione. Naturalmente, può essere opportuno includere anche altri indicatori, dettati dalla specificità della relazione.
Nel secondo caso, forse saprete che, soltanto la scorsa settimana e dopo anni di lavoro al quale hanno partecipato anche diversi relatori pubblici, la ISO (International Standards Organization), ha ufficialmente rilasciato un processo globalmente condiviso per la valutazione monetaria della marca.
Questo sorprendente risultato non soltanto affronta con piglio molte delle incertezze intorno alla misurazione economica degli intangibili esistenti nelle comunità del management, nei mercati e fra gli analisti finanziari, ma – e questo è ancora più rilevante – opta esplicitamente per un processo valutativo focalizzato sulle percezioni di tutti gli stakeholder e non solo dei consumatori.
E questo, a sua volta, implica che il valore monetario di una marca dipende dalla qualità delle relazioni che si sviluppano tra l’organizzazione e i suoi stakeholder.
Ancora una volta …. la questione delle relazioni.
Detto questo,i nostri due interlocutori affronteranno la questione della relazione tra creazione, elaborazione, allestimento e distribuzione, rispettivamente, della cultura e della informazione – che sono la principale attività dei delegati a questo Prix Italia – e il valore che una applicazione adeguata e aggiornata delle relazioni pubbliche può portare a quelle attività – a partire dalla creazione, e non solo dalla distribuzione, come avviene in via normale..
Nel primo caso interpretiamo il termine cultura dalla prospettiva di una organizzazione pubblica: quella del Comune di Torino.
Vi sono pochi dubbi nella mente dei cittadini di questa città, ma anche in quella di tanti milioni di persone che la hanno frequentata negli ultimi 15 anni – che siano o meno consapevoli del (o usino il) termine relazioni pubbliche, che la sua impressionante trasformazione è anche stata guidata e determinata grazie a un supporto attentamene pianificato, intenso e fortemente creativo dal primo giorno, da parte di professionisti di relazioni pubbliche che hanno attivamente contribuito sia alla pianificazione strategica che al processo di attuazione.
Una componente sostanziale di questo processo ha molto a che fare con la creazione, l’assemblaggio e la distribuzione di una narrativa focalizzata sulla cultura che facilita, abilita e nutre la nascita e lo sviluppo di moltissimi network di valore.
Il caso di Torino è studiato e ritenuto una best practice da parte di molte comunità professionali globali, fra le quali ovviamente anche quella delle relazioni pubbliche. Un processo, quello della istituzionalizzazione della comunicazione nella governance della Città Sabauda che ha avuto in Anna Martina una guida autorevole che oggi interpreta due profili professionali: quello di responsabile delle relazioni pubbliche del Comune al quale, più recentemente, ha aggregato quello di responsabile delle attività culturali, sanzionando di fatto l’intima relazione e interdipendenza fra le due aree.
La seconda riflessione riguarda il tema centrale del convegno organizzato da Ferpi nell’ambito della 62° edizione del Prix Italia: l’informazione.
Due anni fa il dipartimento di giornalismo dell’università inglese di Cardiff pubblicò una ricerca rivelatrice dove si dimostrava che l’82% delle informazioni pubblicate dalla stampa inglese di qualità (Independent, Guardia, FT, Times…) fosse direttamente ispirata da gruppi di interesse che si narravano servendosi di servizi interni o esterni di relazioni pubbliche.
Nel 1965 una ricerca analoga dell’Università della Georgia sui due quotidiani nazionali di allora (NYU, WSJ) indicava allora un soglia del 45%. Nel 1995 un lavoro di Hill & Knowlton riferito solo alla stampa economica, parlava del 65%.
Questa impressionante accelerazione è largamente sconosciuta ai lettori, e verosimilmente anche agli editori e ai giornalisti.
Per quanto progressivamente sia sempre meno valorizzato nella sfera pubblica il mito dell’indipendenza dei giornali dagli interessi particolari delle organizzazioni di ogni tipo (economiche, sociali, culturali e politiche..), esiste sicuramente una correlazione fra questa escalation di churnalismo (termine coniato dagli stessi ricercatori di Cardiff), la crescita dei social media e il declino dei media tradizionali.
Qualsiasi possano essere le implicazioni sul ruolo complessivo dell’informazione e sulla stabiltà delle nostre infrastrutture istituzionali, le conseguenze del fenomeno sulla professione giornalistica sono profonde e devono ancora essere pienamente valutate, particolarmente la loro correlazione con il declino del modello di business dei media tradizionali.
Voglio solo rilevare la grande contraddizione fra l’esplosione di auto rappresentazione di interessi da parte di qualsiasi tipo di organizzazione e la riduzione del numero di giornalisti professionisti che lavorano a tempo pieno nei media tradizionali.
Se possiamo sicuramente attribuire quest’ultimo anche al declino del modello di business, possiamo anche però pensare che gli editori considerino l’onda crescente di pubblicazione della rendicontazione interessata, almeno temporaneamente, un valido sostituto al giornalismo investigativo, multi fonte e indipendente.
Questo è assai allarmante, non solo da una pur sempre importante prospettiva etica, ma anche da quella organizzativa. Infatti, quanto più l’efficacia e il successo dei media rimangono ancorati alla credibilità, per quanto declinante, del giornalismo, certo la sua transizione al churnalismo non aiuta.
Abbiamo chiesto il contributo di Eric Reguly, giornalista senior, corrispondente speciale Europeo di uno dei maggior quotidiani canadesi (Globe and Mail) con molte esperienze alle spalle anche per altre testate leader internazionali. La sua percezione di questo fenomeno, le sue attitudini, la sua esperienza sono per noi assai rilevanti perche se c’è una cosa che possa migliorare le relazioni tra giornalisti e relatori pubblici, queste devono iniziare da una franca, critica e trasparente comprensione della situazione da parte di entrambi, assai prima che gli editori e le coalizione dominanti delle organizzazioni.
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