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La comunicazione come relazione

03/07/2009

Le organizzazioni complesse sono, di fatto, sistemi di sistemi di relazioni, tra i pubblici interni e con quelli esterni. Non tutti gli strumenti di comunicazione, anche se opportunamente mixati e indirizzati, consento di costruire e gestire relazioni. Le relazioni pubbliche, dunque, non sono uno strumento tra gli altri, ma hanno una funzione trasversale a tutte le altre dell’organizzazione. Una interessante riflessione di Giampietro Vecchiato, vicepresidente Ferpi e docente all'Università di Padova.

di Giampietro Vecchiato


Se il fine ultimo del “fare” relazioni pubbliche è quello di costruire prima e di governare poi relazioni (ponti) tra le persone e/o tra le organizzazioni, gli strumenti utilizzati e il relativo metodo di lavoro non possono essere neutri ma devono essere coerenti con l’obiettivo di costruire, appunto, relazioni. Non tutti gli strumenti di comunicazione, anche se opportunamente mixati e indirizzati, ci permettono infatti di raggiungere questo obiettivo. Per “costruire relazioni” è necessario cercare una sintesi tra la cultura dello scambio (il tradizionale do ut des che caratterizza i rapporti economici ma molto spesso anche i rapporti interpersonali) e la cultura del dono (il cui valore è strettamente legato al donatore e che da vita ad un legame tra persone che va oltre il puro scambio economico). Le più utilizzate, nell’attività imprenditoriale e manageriale, sono generalmente le prime.


Entrando maggiormente nel dettaglio, nelle relazioni di scambio (exchange relationship) una delle parti in causa concede benefici solo nel caso in cui l’altra parte abbia già portato benefici in passato o, in prospettiva, si aspetta che ne possa accordare in futuro.
Viceversa, nelle relazioni comunitarie (communal relationship) entrambi gli attori concedono benefici all’altro nella convinzione che essi miglioreranno e relazioni e l’altrui benessere, indipendentemente dai benefici futuri. Per molte attività di relazioni pubbliche sviluppare relazioni comunitarie con tutti o alcuni stakeholder/pubblci influenti è molto più importante che sviluppare semplici relazioni di scambio.
Ogni azione comunicativa presuppone quindi un “patto” – libero e responsabile – tra gli attori coinvolti. Alcuni studiosi (Rousseau) lo chiamano “patto psicologico” dove con questo termine intendono una “certa predisposizione interiore a vivere una relazione organizzativa o sociale, con spirito di collaborazione, di fiducia e con un forte impegno affinché le attese, implicite ed esplicite, formali ed informali, che sono alla base della relazione, trovino una risposta soddisfacente per entrambe le parti coinvolte”.
A un patto ci si può arrivare in due modi: per accordo o per consenso.
Nel primo caso (accordo), il patto si esplicita in un contratto, tipico delle transazioni economiche.
Nel secondo caso (consenso), il patto non è mai definitivo, va riscritto e aggiornato giorno dopo giorno e la sua manutenzione deve essere curata costantemente da entrambe le persone coinvolte.


Il valore della comunicazione emerge con grande chiarezza e forza quando sperimenta la relazionalità e il patto è costruito sul consenso (reciprocità).
Da un punto di vista etimologico comunicare significa mettere in comune, confrontarsi, condividere “una parte di noi stessi” con l’altro (“riconoscere il TU in vista del NOI” afferma Martin Buber). Se invece prevale l’idea di comunicazione come trasmissione di messaggi tra due o più persone (oppure organizzazioni), non siamo in grado di cogliere il significato più profondo e autentico della relazione e ci allontaniamo dalla visione della comunicazione come relazione.
La relazione ha infatti bisogno di autorevolezza, responsabilità, reciprocità, pari opportunità, bidirezionalità e non di gerarchia. In caso contrario diventa “semplice” informazione, intesa come invio di un messaggio da A a B (si comunica-a e non si comunica-con).


La comunicazione umana è un fatto sociale molto complesso in cui due interlocutori non si scambiano solo messaggi e/o informazioni; per questo motivo la comunicazione è possibile solamente in presenza, in tutti gli attori, di un consapevole principio di cooperazione.
Ma per costruire ponti tra le persone è necessario un altro ingrediente: la fiducia.
La fiducia è il collante che lega le persone: solo la fiducia reciproca permette di costruire relazioni chiare, trasparenti ed equilibrate. La fiducia non è uno strumento di comunicazione. La fiducia è un valore che richiede al comunicatore/relatore pubblico di esporsi nel rapporto con l’altro, sia nella sua dimensione personale (i valori) che professionale (la competenza).
La fiducia nella relazione è infatti strettamente legata all’affidabilità (credere che l’altro esegua quello che dice di voler fare), alla competenza (credere che l’altro abbia le abilità per fare quello che dice di voler fare) e all’integrità (credere che l’altro sia onesto e leale) degli attori.
La fiducia permette di non dover esplicitare ex ante i vantaggi derivanti dalla relazione stessa (con il rischio di impegnarsi solamente in caso di certezza del risultato) ma di veder riconosciuto ex post l’impegno profuso, con un conseguente aumento (nei due soggetti) della fiducia reciproca e un rafforzamento (nei singoli) della fiducia in sé e dell’autostima.
Il relatore pubblico non può quindi nascondersi dietro l’organizzazione (il “ponte” tra l’organizzazione e l’ambiente esterno è il comunicatore stesso), né può basare i propri comportamenti esclusivamente sulla logica del business is business.


Il relatore pubblico deve dotarsi di una visione etica della comunicazione (professionale ed economica) limpida e trasparente, senza superiorità morale né autoreferenzialità.
Va però riconosciuto nell’etica il luogo della responsabilità individuale e, nella responsabilità, l’esistenza del limite. Questo “limite” va ricercato sia ex-post (la “resa dei conti” come l’ha definita H. Jonas) ma soprattutto ex-ante, nel momento in cui si decide il “da farsi”. L’etica senza responsabilità perde infatti ogni significato e si trasforma in una vuota responsabilità formale.
La responsabilità va fondata su due istanze: la reciprocità e l’empatia, che a loro volta si declinano in una relazione interpersonale dove il potere non è sbilanciato e gli elementi fondanti sono la comprensione, la tolleranza, il rispetto, l’accettazione. Parafrasando Kafka sarebbe più facile scrivere ricette, ma la centralità nelle relazioni pubbliche è quella di “intendersi con le persone” (“nous raccordons les hommes” scrivono i comunicatori francesi) e “intendersi con la gente” – si sa – è difficile.


“Il buon comunicatore – afferma Maria Teresa Giannelli – non è chi compromette fin dall’origine il patto di fiducia su cui si costruiscono relazioni soddisfacenti ed equilibrate, vendendo un’immagine di sé che non corrisponde alla realtà o adoperando strategie manipolatorie per ottenere il consenso”. Questo tipo di comunicatore è destinato a essere prima o poi smascherato o smentito nei fatti, con la conseguenza di perdere il consenso estorto e fallendo così nelle proprie relazioni (perdita di credibilità).
Il buon comunicatore è un professionista che basa il proprio successo comunicativo sull’auitenticità e quindi sulla capacità di instaurare e mantenere relazioni basate sulla fiducia. E’ una persona sostenuta da un forte senso etico della vita e delle relazioni, a loro volta in grado di generare nuova e più profonda comunicazione.
Il buon comunicatore agisce quindi per mantenere sempre aperto il dialogo (anche in presenza di conflitto), per ridurre ogni rischio di ambiguità o vaghezza, per eliminare ogni trappola comunicativa che possa ostacolare lo scambio e la cooperazione.
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