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La CSR al tempo della crisi

30/05/2012

Nel momento di recessione attuale, il tema della costruzione del capitale reputazionale delle imprese torna centrale. La CSR non è morta, ma certamente ha bisogno di spinta propulsiva e innovatrice e di strumenti che alimentino una comunicazione materiale in grado di sviluppare un dialogo le comunità e le istituzioni. Ne ha parlato il presidente Ferpi, _Patrizia Rutigliano,_ nel convegno di apertura di _Dal Dire al Fare._

di Patrizia Rutigliano
Crisi economica, scenari recessivi, crisi di fiducia dei cittadini verso le istituzioni. Torna centrale la costruzione del capitale reputazionale delle imprese, il suo rafforzamento attraverso una comunicazione trasparente e aperta all’ecosistema in cui le imprese operano.
Da un recente studio del Reputation Institute apprendiamo che nella scelta finale d’acquisto da parte dei consumatori il prodotto conta solo per il 40%: il rimanente 60% è determinato dalla positiva percezione di fattori quali l’etica d’impresa, la sostenibilità, la trasparenza, la capacità di raggiungere e mantenere risultati nel lungo termine. Cosa significa tutto questo dal punto di vista della comunicazione e delle relazioni con gli stakeholder in grado di creare un reale valore per l’impresa e il territorio? Significa che bisogna essere sempre più determinati nei processi di disclosure, aperti nel “dibattito pubblico” ed efficaci nei processi di reporting. Significa ampliare la gamma degli strumenti che supportano tali processi, restringendo sempre più il campo di una comunicazione troppo spesso “strumentale” a vantaggio di un approccio realmente trasparente e di effettiva materialità.
Ciò è possibile mettendo in campo progetti di comunicazione e di relazione che abbiano un valore intrinseco, che aiutino i pubblici a capire, a comprendere e generare una condivisione responsabile. Occorre generare un dialogo a partire da progetti che sostanziano “scientificamente” la comunicazione. Nel tempo di Internet quasi tutto è verificabile, confrontabile, confutabile. Serve un approccio sistematico e una comunicazione credibile. Qualunque organizzazione vive, cresce o muore sulla base della qualità delle sue relazioni. Relazioni che vanno costantemente alimentate e stimolate.
Se parliamo di CSR, credo sia importante avviare, come mi pare già si stia facendo, una riflessione sul futuro della sostenibilità di impresa e su quali siano i percorsi per il suo rafforzamento. Nonostante i profeti di sventura, la CSR non è morta, ma certamente ha bisogno di spinta propulsiva e innovatrice. Questo impegno non nasce dai confinati recinti di una discussione puramente accademica, ma dall’evolversi del contesto sociale in uno scenario di crisi.
La sostenibilità al tempo della crisi
Una domanda infatti non possiamo eludere: come fare tutto questo in uno scenario recessivo, tra crisi finanziaria e riduzione degli investimenti? Come allineare lungo questa strada anche contesti imprenditoriali meno strutturati? Come rafforzare tessuti imprenditoriali meno permeabili a intraprendere percorsi virtuosi di sostenibilità che aziende di ben altre dimensioni possono percorrere con più facilità ed agio, pur nell’attenzione ai costi che doverosamente si impone anche a loro?
Va superato il concetto di sostenibilità come pura filantropia o di sostenibilità intesa unicamente, per quanto imprescindibile e importante, come riduzione del rischio per integrarla a processi incardinati sul concetto di Valore Condiviso, un concetto che nato dalla riflessione di Michael Porter può rappresentare un’opportunità per sviluppare un modello particolarmente efficace e coerente con il mondo dell’impresa.
Le aziende devono attivarsi per coniugare business e società generando valore economico in modo tale da creare contemporaneamente valore per la società, nel rispondere agli imprescindibili obiettivi dell’impresa possono al tempo stesso e a quelli del territorio nel quale si opera.
Ma come farlo? Chiediamoci quanto c’è all’interno delle nostre imprese in termini di competenze e conoscenze, potenzialmente trasferibili sul territorio, da trasformare in esternalità positive che possono essere un momento di crescita anche per gli ambiti territoriali in cui un’impresa opera. Contesti spesso alle prese con criticità finanziarie e di trasferimento di risorse e di bilanci ai quali è possibile rispondere non semplicemente con erogazioni o contributi di natura filantropica, ma anche con competenze che generino valore condiviso. Alcuni già parlano di passare dalla CSR alla CSI, dalla corporate social responsibility alla corporate social innovation che fa dell’impresa un promotore di innovazione sociale mettendo a disposizione expertise ed asset aziendali.
Agire dunque sui processi core per massimizzare le esternalità positive e attingere al grande bacino di assett, competenze, conoscenze, best practice che l’impresa possiede. Se le aziende guardano dentro se stesse scopriranno questo grande patrimonio che spesso può essere messo a disposizione degli stakeholder con costi marginali ridotti. Nel capitale dell’azienda competenze e formazione sono un patrimonio a valore condiviso che le imprese, soprattutto quelle maggiormente strutturate e che includono il modello di sostenibilità nel loro modello di business, possono far fruttare per la crescita competitiva dei propri stakeholder e del territorio.
Un esempio, tra gli altri, riguarda i processi che investono la supply chain. Best practice, linee guida, progetti specifici già sviluppati all’interno dell’azienda possono essere un valore in termini di conoscenza da trasferire a quei fornitori e PMI che si avviano a definire percorsi di sostenibilità e attraverso i quali non solo garantiscono i requisiti richiesti dall’azienda appaltante, ma rappresentano un momento di crescita, e dunque di competitività, del fornitore stesso.
Strumenti innovativi e débat public
Questi processi vanno accompagnati da strumenti che alimentino una comunicazione materiale in grado di sviluppare un dialogo aperto e altrettanto materiale con le comunità e le istituzioni. In questa gamma di strumenti, pur nelle loro differenti specificità e finalità, sono sempre più centrali i processi di rendicontazione che si muovono verso l’integrazione, gli studi di Social Impact Assessment ancora non sufficientemente utilizzati, lo sviluppo di modelli di relazione territoriale maggiormente partecipativi.
In Europa, quest’ultimi, si stanno rapidamente moltiplicando: la Francia, in particolare, ormai da tempo ha adottato un modello partecipativo nella realizzazione di grandi iniziative infrastrutturali fondato sul principio della valutazione dell’impatto ambientale e sociale dell’iniziativa e di concertazione e confronto con il territorio sin dalle prime fasi di elaborazione progettuale.
Sulla scorta di questa e di altre esperienze l’Unione Europea sta proponendo ai paese membri modelli di comportamento analoghi, come ad esempio nel caso della Proposta di Regolamento concernente la realizzazione delle infrastrutture energetiche trans-europee attualmente in esame al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa.
E’ maturo il tempo, per le aziende italiane, di mostrare più coraggio e fiducia in strumenti partecipativi di questa natura, pur tenendo presente che in Italia, per cultura e tradizione, ragionare di interesse generale in contrapposizione con l’interesse locale è molto più complesso e faticoso che in altre parti d’Europa.
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