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La cultura della difesa, territorio ancora da esplorare per la comunicazione

#Inpuntadispillo

10/03/2023

Daniela Bianchi

Difesa non è sinonimo di guerra. Il Ministro Crosetto ha creato un think tank per la comunicazione della difesa. Quale ruolo per i professionisti della comunicazione e delle relazioni? La proposta della Segretaria Generale Daniela Bianchi per favorire una discussione ampia, aperta ed efficace ai fini di un’elaborazione culturale.

Il Ministro Crosetto sbaraglia il campo e mette in piedi un think tank per la "comunicazione della difesa". Nomi di esperti e stimati professionisti compongono la rosa dei 7 che avranno il compito, arduo e spinoso, di legittimare e coniugare due termini comunicare + difesa.

Trovo legittima la scelta del Ministro in quanto Istituzione, e trovo altrettanto legittimo che la sentinella dell’opinione pubblica vigili affinché questo non si trasformi nel think tank personale dell’uomo politico, ma sia un campo istituzionale che nel perimetro costituzionale affronti il tema della “cultura difesa” per uno Stato e come comunicarla. È un dato incontrovertibile, l’Italia ripudia la guerra. È un dato incontrovertibile, anche, che l’Italia abbia un problema culturale con il concetto di difesa, nella sua accezione più ampia che non è solo difesa dei confini.  

Con l’avvento del fascismo, la policitizzazione della difesa militare ha relegato questo tema nell’angolo oscuro, marchiandolo con un’ombra di sospetto. Per cui negli anni si è guardato alla sua organizzazione come una cosa senz’altro necessaria, ma il minimo indispensabile.

Un approccio legittimo, dopo le ferite non rimarginabili della storia. Un approccio che durante il periodo della guerra fredda, ad assetti cristallizzati, non è stato difficile da tenere. Quando questa strutturazione statica è venuta meno, sono emerse le necessità di parlare chiaramente di difesa dello Stato e per lo Stato. Uno Stato che si definisce anche per la sua capacità di autotutelarsi dalle “minacce” interne e da quelle esterne.

Ed è proprio nel cambio degli assetti geopolitici, che è via via stato sempre più evidente come in Europa gli approcci culturali siano diversi. Ad esempio in Francia, il concetto di difesa dello Stato ha una valenza culturale rilevante: chi lavora nella difesa fa il bene dello Stato, ma anche le aziende che lavorano per la difesa sono percepite come “servitori” dello Stato, lo stesso vale per la Germania. 

Per questo varrebbe davvero la pena di fare un ragionamento utile sulla necessità di una sedimentazione culturale stabile, non fluida a seconda del momento internazionale. Siamo un grande Paese, varrebbe la pena provarci. 

Tirare in ballo la comunicazione per aiutare un processo culturale mi sembra un approccio utile. Rimane però sempre la criticità, sullo sfondo, che queste iniziative abbiano vita troppo breve, circoscritte come sono nel tempo.

La memoria va al libro bianco della Ministra Pinotti che diede vita ad un libro bianco della difesa.

Questioni come questa investono e riguardano pezzi importanti, società, aziende, processi tecnologici, riferimenti culturali, contestualizzazioni geopolitiche, necessitano di strategie lungimiranti che forse non possono esaurirsi in un tavolo di 7 nomi. Soprattutto se ci sono enti che presidiano questi temi da anni il CeSI, lo IAI, il CASD. Che nell’elaborazione di studi e ricerche hanno proprio lo scopo di tentare una definizione culturale e di farne elemento di comunicazione. 

Senza dimenticare che la cultura della difesa riguarda non solo le forze armate, ma l’ampio e strutturato comparto della diplomazia.

Fino ad arrivare al concetto più sottile di public diplomacy, che nasce come un modello di comunicazione unilaterale, usato soprattutto nelle discussioni internazionali con lo scopo di influenzare i loro pensieri e, di conseguenza, quello dei loro governanti. 

Ecco un tavolo che ragioni di comunicazione della cultura della difesa, dovrebbe avere l’ambizione di un ragionamento culturale più ampio, naturalmente questo è il mio punto di vista, teso per abitudine a favorire la costruzione di processi olistici.

 

 

Altrimenti rimane il dubbio, che l’intenzione seppure ottima, sia superata dalla contingenza. In questo caso il vertice Nato di Bruxelles, dove il Ministro Crosetto ha ribadito l’importanza del raggiungimento di un obiettivo di spesa militare del 2% del Prodotto Interno Lordo. Sottolineando la necessità dello scorporo delle spese della Difesa dai vincoli di bilancio per non intaccare risorse destinate agli interventi sociali. Tema del 2% al centro anche del vertice di Vilnius, perché l’Italia può correre il rischio di essere l'unico Paese non in grado di raggiungere o menzionare i tempi in cui raggiungerà tale obiettivo.

Un po’ come la contingenza del libro bianco della Ministra Pinotti, e l’accordo per l’acquisto dei Joint Strike Fighter.

A mio avviso il tema non è se la Comunicazione debba essere associata o no al tema della “cultura della difesa”, quasi a polarizzare una discussione su armamenti sì o no (anche perché nel concetto di difesa rientra una visione più ampia di società e cittadinanza con cui bisognerà imparare a fare i conti). Il tema è se il mondo dei professionisti della Comunicazione e delle Relazioni vuole riappropriarsi anche in questo campo del suo ruolo responsabile e sentinella (v. 18 goal SDGs) e affiancare questo think tank, proponendosi per favorire una discussione ampia, aperta e davvero efficace ai fini di un’elaborazione culturale.

 

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