La Grande Crisi e il fine dell'impresa
15/03/2010
La Grande Crisi avrà effetti sul fine ultimo dell'impresa? Da questo interrogativo parte l'analisi di Massimo Mucchetti che individua il fine ultimo nella libera scelta dell'imprenditore. Ovviamente tutto cambia se a guidare un'azienda non è più un singolo ma un azionariato diffuso. Non è il caso della _Fernet Branca_, dove la scelta di difendere la tradizione prevale sulla ricerca del massimo profitto.
di Massimo Mucchetti
La Grande Crisi avrà effetti sul fine ultimo dell’ impresa? Qualche sera fa ne ho ragionato con un amico, Mario Barozzi, che, dopo aver lavorato nella banca americana Chase e all’ Enel, ora investe cifre importanti nel private equity. Il fine dell’ impresa appartiene alla libera scelta dell’ imprenditore, ma questa è influenzata dallo spirito del tempo e dei luoghi. Se ai primi del Novecento, la compagnia di navigazione del Reno aveva come scopo principale quello di collegare le città rivierasche, alla fine del secolo il fine era diventato quello di creare valore per i soci. Del resto, se la proprietà non è rappresentata da un armatore ma da un azionariato diffuso ovvero da un fondo speculativo, e se i marinai non sono più una corporazione sindacalizzata ma un coacervo casuale di umanità migrante, anche l’ impresa non è più la stessa. E quando gli ho chiesto se fosse bello tutto ciò, il mio amico mi ha invitato a conoscere Nicolò Branca, che guida la celebre azienda del fernet.
La Fratelli Branca Distillerie vende dal 1845 un amaro ricavato dall’ infusione di una quarantina di erbe e radici provenienti dai 5 continenti secondo le proporzioni elaborate da Beniamino Branca. La ricetta, tuttora manoscritta, viene tramandata dal leader della famiglia al suo successore. Solo il direttore di produzione condivide il segreto. La mescola è regolata da computer inaccessibili agli hacker. A metà Ottocento, il direttore del Fatebenefratelli, padre Nappi, riscontrò benefici effetti del fernet contro il colera asiatico. Nell’ America del proibizionismo, il Fernet Branca era regolarmente in vendita perché medicamentoso. Il prodotto è immutabile, ma il modo di berlo cambia, e oggi il primo mercato è l’ Argentina, dove i ragazzi lo diluiscono con la Coca Cola in un cocktail chiamato Fernandito. La storia dell’ azienda, che faceva marketing quando la materia non era ancora insegnata, è conservata nel museo dello stabilimento di Milano, un vecchio immobile costantemente riadattato. Qui figurano anche le memorie delle rare acquisizioni: Borghetti, Carpano, Candolini.
Con 250 dipendenti, la Branca fa 153 miliardi di ricavi, per il 65% all’ estero; ha un margine operativo lordo di 33,6 milioni e un utile di 18,4 dopo 12 milioni di imposte; il patrimonio netto è di 188 milioni, 99 milioni sono titoli e cassa, zero debiti in banca. Il professor Branca sa perfettamente che, se spostasse la fabbrica fuori città, valorizzerebbe l’ area e che, con il cash flow che genera senza interruzioni da decenni, più stabile dell’ Enel, potrebbe estrarre molto valore della società indebitandola, ma trova tutto ciò un pò greedy, un pò avido. A lui sta a cuore la continuità dell’ azienda. Durare vale più di guadagnare. Sulla durata si costruiscono relazioni e saperi, e per durare ci vuole equilibrio. Il mio amico sorridendo dice: «Noi dei private equity dovremmo starci alla larga: con aziende come queste guadagneremmo facile ma poi le ruberemmo l’ anima».