Il Manifesto - 27 agosto 2004Le tecniche pubblicitarie usate nelle campagne presidenziali UsaLa politica del rancoreUn ping pong a colpi di invettive e di spot che mettono in dubbio la moralità dell'avversario. E' questa la strategia messa in campo dall'attuale presidente degli Stati uniti per riempire la scena pubblica di futili pettegolezzi L'entrata in campo dei «political consultans» esperti di media è l'approdo di una lunga marcia della pubblicità nell'agorà statunitense. Una presenza che alterna gossip, scandali, rancore e una comunicazione aggressiva e unilateraleIl fronte internoGli insulti di Harry Truman contro Thomas Dewey mettono a nudo nelle elezioni del 1948 la crisi dei partiti di massaComitati elettorali Personalizzazione della politica manipolazione dei fatti e dosi massicce di pubblicità negativa sul piccolo schermoFERDINANDO FASCESolo il tempo ci consentirà di dire se l'odiosa provocazione repubblicana degli spot pubblicitari anti-Kerry giustifica il giudizio dell'economista Paul Krugman («probabilmente la più sgradevole e cattiva campagna della storia americana contemporanea»), oppure se, come dice Vittorio Zucconi, si tratta di «roba vecchia, nel pozzo delle campagne elettorali non solo americane, trucchi sporchissimi che tutti utilizzano». Sperando che comunque, al tirar delle somme, l'ignobile gazzarra non risulti utile a Dubya, perché non prenderci un po' di tempo e guardare indietro ai precedenti delle cosiddette campagne «negative», cioè giocate sull'attacco indiscriminato contro l'avversario? Che non siano una novità non ci piove. Così come la presenza di elementi polemici e contraddittori, anche in chiave personale, ampiamente segnalata nella vita pubblica nordamericana da sempre, va considerata come un segno di vitalità e di salute della scena politica. Sembra difficile, però, trovare qualcosa di positivo o di utile alla dialettica democratica nelle invettive che si scambiano già nel 1800, alla quarta elezione della storia Usa, i sostenitori di Thomas Jefferson, che vincerà, e quelli di John Adams, presidente uscente. Con le gazzette legate esplicitamente al primo e alla sua fazione che tuonano contro il secondo che la nazione deve farsi un bell'esame di coscienza e chiedersi come quattro anni prima abbia potuto «scegliere un tale scellerato... che non ha il sapere di un magistrato, né la gentilezza di un cortigiano, né il coraggio di un uomo». Per tutta risposta, nel dopo elezioni, gli avversari di Jefferson cominciano a diffondere la voce (che gli storici avrebbero poi recentemente provato vera) di una sua relazione con la schiava Sally Hemmings.Quarant'anni dopo, mentre alle fazioni notabilari si sono sostituiti i moderni partiti di massa, è la volta di John Tyler, democratico con un certa inclinazione all'intrigo e alla giravolta, a essere sbeffeggiato con una canzoncina che dice «Conoscete un traditore più vile, più vile/ di John Tyler?». Ma per imbattersi nella «madre di tutte le campagne negative» occorre farne passare altri quaranta di anni e seguire gli attacchi rivolti ancora contro un democratico, Grover Cleveland, nel 1884. Quando esplose la rivelazione che lo scapolo Cleveland diversi anni prima aveva avuto una bambina da una relazione «illecita» con una vedova, l'America vittoriana lo mise alla gogna al grido di «Mamma!Mamma! Dov'è papà?». Ma forse perché scoppiò troppo tardi per essere sfruttato sino in fondo, il caso non impedì al candidato democratico di vincere.Vent'anni dopo, a conferma che non tutte le ciambelle «negative» finiscono col buco, un tentativo non dissimile di parte democratica fu stroncato sul nascere. Per sbarrare la strada all'incontenibile presidente in carica Theodore Roosevelt nel 1904 i democratici pensarono di utilizzare una foto, già apparsa sui giornali, ma della quale, per fortuna di Roosevelt, si era persa traccia. La foto ritraeva la giovane e popolarissima figlia del presidente, Alice, mentre, durante una visita al padiglione filippino dell'Esposizione Internazionale, tenutasi a St.Louis in quello stesso anno, posava uno sguardo sorpreso, ma incuriosito, sui genitali di un giovane nativo filippino, coperti a malapena da un esiguo perizoma esotico. L'offensiva fu rintuzzata dall'abilissmo segretario del presidente, che rintracciò il fotoreporter, si fece consegnare il negativo e archiviò la pratica come l'ennesima bravata della ragazza, la cui esuberanza mise a dura prova in più occasioni la pazienza del presidente.Cose del genere non si ripeterono negli anni successivi. Il pur contrastato allentarsi della forza dei partiti, su cui si fondava l'animosità delle campagne, ne raffreddò la temperatura. Cosa alla quale contribuì anche il progressivo tentativo di politici, osservatori e opinion makers di isolare la massima carica dello stato, e di conseguenza anche l'agone elettorale, dagli scandali e da tutto ciò che minacciava di intaccare l'immagine dei vertici delle istituzioni, dato l'inedito rilievo che la figura del presidente e lo stato federale andavano assumendo con l'avanzare del nuovo secolo. Ma ciò non impedì che nel 1948, stando al «New York Times», il presidente in carica Harry Truman apostrofasse l'avversario Thomas Dewey assimilandolo a «Hitler» e definendolo «uno strumento dei fascisti». Né che una quindicina d'anni dopo ancora i democratici, con il presidente in carica Lyndon B. Johnson, inaugurassero l'uso di spot televisivi «negativi».Prima di parlarne, però, ricordiamo che nel frattempo si era entrati nell'età della TV, della crisi dei partiti e dell'incipiente personalizzazione della politica esemplificate alla convenzione repubblicana del 1952 dalla vittoria di Eisenhower: non un politico di professione, né il candidato ufficiale del partito, ma un eroe di guerra, che poteva contare su un comitato elettorale autonomo finanziato dalle grandi imprese, una figura che ben si prestava alla personalizzazione sollecitata dal nuovo mezzo. Beninteso, accanto e più della Tv le profonde dislocazioni della vita quotidiana che avanzavano nel dopoguerra (suburbanizzazione, consumi di massa, vorticosa crescita del terziario e tendenziale ridefinizione del baricentro del paese vero il Sud e l'Ovest) e gli imperativi della guerra fredda, che limitavano fortemente lo spettro delle opzioni concrete sul tappeto, contribuirono al terremoto della vita politica fatto di crescente spettacolarizzazione e di caduta della partecipazione.Ma sarebbe difficile sottovalutare il ruolo svolto dalla Tv nel modificare il tono delle campagne, facendo accettare, con una rilevanza sino ad allora ignota, la comunicazione commerciale, i suoi operatori e le sue forme in sede politica, a scapito della discussione su temi reali che c'era stata in passato, anche in mezzo agli scandali, alla corruzione e al clima di sagra paesana delle campagne ottocentesche.Primo mezzo di comunicazione di massa nato e cresciuto con funzioni esclusivamente di mercato, la televisione ridimensionò con le sue peculiari caratteristiche (tecnologiche, di modi espressivi, di tempi, di budget) la presenza di pubblicisti e di altre figure tradizionali di organizzazione propagandistica legate ai partiti, ai dibattiti radiofonici, ai comizi e a quanto restava delle estenuanti maratone dei candidati in giro per il paese, esemplificate, ancora nel 1948, proprio dalla campagna vincente di Truman.Alla Tv si affidarono dunque i democratici nel 1964, in corrispondenza con la comparsa, sotto le loro insegne, per la prima volta, di un'agenzia pubblicitaria di grande rilievo (in genere i pubblicitari stavano dalla parte dei repubblicani, partito tradizionalmente vicino al business). Era l'emergente Doyle Dane Bernbach (Ddb), segnalatasi per lo stile anticonformista e ironico, che rifletteva e rielaborava gli umori controculturali dell'epoca. Sfidando il pericolo di guadagnarsi «il possibile risentimento di alcuni dei nostri maggiori clienti commerciali repubblicani», l'agenzia, già interpellata da Kennedy nel 1963 in previsione della rielezione, accettò di lavorare con l'erede del presidente assassinato.Ma non fu l'immagine di quest'ultimo a dare il tono alla campagna. Ddb puntò in altra direzione, con una serie di spot televisivi volti a mettere in evidenza il pericolo di conflitto nucleare che un'eventuale vittoria del candidato repubblicano, il guerrafondaio Barry Goldwater, avrebbe prodotto. Passò alla storia il più drammatico e controverso di questi spot, andato in onda ufficialmente una sola volta e poi ritirato in seguito alle proteste dei repubblicani presso la Fair Campaign Practices Commission, l'ente federale che sovrintende al regolare svolgimento delle campagne.Il clamore che ne seguì produsse, però, l'effetto opposto a quello sperato dai repubblicani: riprodotto infinite volte, in innumerevoli trasmissioni televisive dedicate al caso, lo spot finì per essere visto da tutti. Raffigurava una bambina in un campo di margherite, insidiata dall'ombra cupa, in dissolvenza incrociata, di un'esplosione nucleare. Indicò la possibilità di fare della «pubblicità negativa», incentrata sulla «demonizzazione» dell'avversario, la chiave di volta della propaganda politica.E' indubbio tuttavia che un salto di qualità in questo senso fu fornito, quasi un quarto di secolo dopo, proprio dall'«adorato papà» dell'attuale presidente, George Bush sr. Ancora una volta molta acqua era passata sotto i ponti della politica Usa. A fine anni sessanta «Tricky Dicky» Nixon aveva inaugurato, per la verità con alterna fortuna, la «politica del rancore» e di una comunicazione aggressiva e unilaterale, affidata, come il resto delle sue iniziative, all'intrigo e alla spregiudicatezza estrema.Erano comparsi all'orizzonte i padri e fratelli maggiori di Karl Rove, lo stratega elettorale che ha portato Dubya al successo nel 2000 e intende riportarcelo oggi: ovvero i cosiddetti political consultants, esperti di comunicazione e di media formatisi secondo i criteri tipici della pubblicità e delle indagini di mercato, ma direttamente in ambito politico.Rispetto ai pubblicitari prestati alla politica, ai quali erano destinati ad affiancarsi e in notevole misura a sostituirsi, i political consultants avevano il triplice vantaggio di una migliore conoscenza della vita politica, di un conseguente maggior grado di specializzazione e dell'assenza delle preoccupazioni, che invece attanagliavano i pubblicitari commerciali, intorno alle possibili conseguenze negative che il passaggio temporaneo alla politica poteva avere sulla loro carriera principale al servizio delle imprese. Reagan aveva perfezionato il tutto portando a Washington un'esperienza personale mediatica senza precedenti. Privo del carisma del «grande comunicatore», preoccupato di discutere delle questioni reali di un paese nel quale imperversavano la «deindustrializzazione» e gli scandali finanziari favoriti dalla liberalizzazione selvaggia, il suo ex-vice Bush sr. nel 1988 giocò il tutto per tutto. In una campagna che mostrò come, in mano a operatori della comunicazione politica preoccupati del risultato a ogni costo, le campagne «negative», da un lato, si prestano a forme particolarmente gravi di distorsione dei fatti, e, dall'altro, possono diventare un comodo succedaneo alla discussione dei temi sostanziali, con un effetto cosiddetto di «manipolazione strategica», riguardante, cioè, non tanto la sostanza delle cose, quanto ciò che il chiacchiericcio scandalistico, impedisce di dire e vedere, condizionando la definizione dell'agenda politica.Lanciò contro il rivale, l'invero grigissimo governatore del Massachusetts Michael Dukakis, una serie di spot nei quali, in forma esplicita ed emotivamente fortissima, al governatore veniva addebitata la responsabilità della violenza commessa da un detenuto nero dello stesso stato, durante un weekend di libertà temporanea, in forza del fatto che tale libertà rientrava nei provvedimenti adottati nelle carceri del Massachusetts durante il governatorato del candidato democratico.Oggi i repubblicani ci riprovano, come ha notato in una dichiarazione finalmente meno ingessata del solito patatone-Kerry, che ha giustamente denunciato il fatto che i repubblicani parlino di questo per non parlare di cose serie come posti di lavoro, salute e politica. Con la pesante aggravante, rispetto a quindici anni fa, di aver adottato la tattica nixoniana (invero un vecchio trucco delle public relation brevettato negli anni venti dal nipote di Freud Edward Bernays) di occultare la fonte del messaggio, in una girandola di sigle, siti, smentite, controsmentite. Dalla quale alla fine l'esperienza vietnamita, che invero Kerry ha alquanto improvvidamente sbandierato come carta vincente, pare aver bisogno dell'autorità del presidente in carica (che in Vietnam non c'è andato non perché pacifista, ma perché imboscato) per essere riconosciuta. «Kerry sia fiero del suo Vietnam», dice Dubya magnanimamente, uscendo alla scoperto per sconfessare gli eccessi degli spot anti-Kerry, manco fosse Riccardo Cuor di Leone nella foresta di Sherwood. Deformazione professionale spinge chi scrive ad augurarsi che chissà quando uno storico riesca a trovare copia del messaggino nel quale, dopo la convenzione democratica di fine luglio, Rove pare abbia detto che «per novembre non si saprà nemmeno più da che parte ha combattuto Kerry», sotto il peso della campagna diffamatoria. Ma rinuncerei volentieri a questo piccolo sogno in cambio della garanzia che Dubya venisse rispedito, come merita, senza biglietto di ritorno per Washington, nel suo amato ranch di Crawford.Dal Manifesto, un articolo sull'utilizzo di tecniche pubblicitarie nella campagna presidenziale Usa