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La morte dell’opinione pubblica. Quali conseguenze sulle relazioni pubbliche?

28/08/2008

Nanni Moretti al Festival del cinema di Locarno annuncia la morte dell’opinione pubblica italiana. Scalfari gli fa eco su La Repubblica di domenica 17 agosto. Toni Muzi Falconi riprende la provocazione del regista leggendola, come sempre, con l’occhio del relatore pubblico.

di Toni Muzi Falconi


Mi aveva incuriosito, qualche giorno fa sui giornali, l’affermazione di Nanni Moretti lanciata dal Festival del cinema di Locarno sulla morte in Italia dell’opinione pubblica (“la cosa più grave è che manca, non esiste, una opinione pubblica”).
Domenica 17 Agosto, il sermone laico di Eugenio Scalfari su Repubblica elabora sul tema.


Mi pare che la prospettiva di entrambi sia tutta nazionale, politica e attribuisce a Berlusconi la responsabilità primaria del fenomeno (la morte dell’opinione pubblica, appunto).
Condivido in larga parte….


Ma da una prospettiva più ampia, mi pare che la sindrome antiberlusconiana di molti di noi (mi ci metto anch’io..) rischia di focalizzare l’attenzione soltanto sulle nostre specificità, mentre il tema della (possibile..) fine dell’opinione pubblica è una caratteristica emergente in quasi tutti i Paesi democratici dell’Occidente.
Naturalmente, essendo la nostra professione (e naturalmente non è l’unica…) consustanziale al concetto di opinione pubblica, vale la pena ragionarci sopra e capirne, ove sia un argomento verosimile, le possibili conseguenze.


Sgombriamo subito il terreno dalle specificità italiane.


Sono d’accordo con Scalfari e anzi di più: come avevo scritto qualche mese fa in questo sito, ma il motore di ricerca è una delle poche cose che non funzionano bene e quindi non so linkarvelo, credo che l’Italia sia divenuto, oggi, il solo Paese della vecchia Europa dove si è prodotta una singolare integrazione al ribasso fra le opinioni dei pubblici e la sua classe dirigente.


Mi spiego: i Paesi democratici dell’occidente hanno sempre progredito (…quando e se hanno progredito..) grazie anche a classi dirigenti, sì! rappresentative dei cittadini, ma ben consapevoli della propria funzione di proporre valori, programmi, azioni, mete più avanzate rispetto al ‘sentire comune’.
La legittimazione delle leadership e delle elites (non solo politiche, ma anche economiche, culturali, sociali) deriva, in larga parte, dalla loro capacità di guidare il cambiamento sociale, stando avanti un passo e non indietro.


Credo sia plausibile partire dal 1994 per tutte le ragioni che sappiamo: crollo della prima repubblica, mani pulite, movimento referendario, lega, trasformazione del pci in pds e annientamento del psi e della dc…., ma soprattutto l’ingresso dirompente, unico in Europa, di una personalità di successo economico come Berlusconi, con la sua singolare abilità nell’imporre l’agenda a tutti: sodali, avversari, critici, alleati e semplici osservatori.
E questo, grazie ad un uso intelligente e pervasivo dei sondaggi per assicurare che le sue tematizzazioni, moltiplicate da una rete capillare di portavoce sparsi sul territorio di cui ci si dimentica troppo spesso nell’analisi, e ogni giorno sostenuti da una poderosa macchina massmediatica, si trasformassero in sfera pubblica.


E’ successo che le opinioni della classe dirigente e quelle dei tanti pubblici si sono, come dire, integrate con la prima che si è adeguata alle seconde nei loro valori, programmi, azioni e mete.


In un certo senso, si è prodotto un percorso inverso a quello auspicato da sempre dai cantori del sistema democratico, con la classe dirigente che si adegua, rinunciando al ruolo di guida, per interpretare fedelmente e passivamente le aspirazioni sempre più frammentate e autoriferite dei tanti pubblici, in piena libertà dopo la caduta dei tradizionali aggregati.


Per dirla in termini più propri alla nostra professione: il modello della persuasione scientifica, teorizzato da Edward Bernays, efficacemente praticato dai relatori pubblici in Occidente e non solo per quasi tutto il ventesimo secolo, ha trovato la sua sublimazione nel nostro Paese, alla fine del primo decennio del nuovo secolo.
Con, però, una piccola ma non secondaria differenza: Bernays descriveva l’ingegneria del consenso come processo che garantiva alle elite (sempre democratiche si intende, e -soprattutto se parliamo dell’Italia di oggi! – mobili e dinamiche) il governo delle masse tramite la soddisfazione dei desideri inconsci di queste ultime… Non a caso Bernays era nipote di Freud e suo primo traduttore in inglese; non a caso era interlocutore intellettuale privilegiato di quel Walter Lippmann che per primo concettualizzò l’opinione pubblica.


Questo consenso si poteva ottenere ascoltando preventivamente i pubblici per confezionare e diffondere messaggi graditi e persuasivi, orientati a stimolare idee, comportamenti e decisioni dei pubblici.
E’ il marketing, bellezza!


Da noi invece, a me pare di vedere che le elites (ripeto, non solo politiche, ma culturali, economiche e sociali) abbiano assunto, e non solo ascoltato, come propri i desideri inconsci delle masse….. e la loro indubbia legittimazione deriva da questa totale sovrapposizione.
Il cittadino si riconosce nelle elite perché queste gli assomigliano in tutto e per tutto.
Concentrato su sé stesso e sul proprio particolare, osserva i propri desideri trasformati in realtà e azioni dalle elites.
Una volta questa dinamica poteva produrre indignazione, rigetto e domanda di cambiamento.
Oggi non più: prevale una soddisfazione riflessa dai mass media con gli stessi nani e ballerini che si alternano dal piccolo schermo, al gossip e persino ai blog fra ruoli di spettacolo e di responsabilità economica, legislativa o sociale senza soluzioni né di identità né di continuità: l’identificazione è totale.
E fin qui, lo specifico italiano.


Veniamo ora ad una questione più rilevante e sicuramente più interessante.


Per Walter Lippmann, l’opinione pubblica è rappresentata dalle opinioni dei cittadini adulti; raccolte, comprese e interpretate dal giornalismo indipendente, che le inoltra verso le elites affinché ne tengano conto nella loro azione di guida della società; mentre la sua versione perversa si produce quando il ciclo si inverte: quando elite e giornalismo si integrano a livello politico e/o economico, per inoltrare l’agenda verso i cittadini.
Comunque sia, il giornalismo svolge un ruolo fondamentale.
E, con il giornalismo, nel bene e nel male, anche le relazioni pubbliche la cui funzione prevalente è ancora di elaborare, per conto di interessi espliciti (privati, pubblici, sociali), contenuti capaci di orientare il giornalismo verso temi e argomenti specifici a scapito di altri.
Secondo la più recente ricerca dell’Università di Cardiff, più volte presentata in questo sito…, come fonte, siamo cresciuti negli ultimi 20 anni dal 60 all’82% delle informazioni pubblicate dalle migliori testate britanniche….
E questo ci dà una misura palpabile della crescita, anche se non governata e per molteplici aspetti perversa, della nostra funzione professionale.


Non mi dilungo… ma:


- le conseguenze di questo dato;


- la crisi di credibilità generalizzata delle autorità (private, pubbliche, sociali);


- la crasi fra globalizzazione, esplosione delle diversità e tecnologie informatiche…


hanno prodotto una polverizzazione dei pubblici e delle loro opinioni.


La conseguenza è che il giornalismo non rappresenta più l’opinione pubblica, ma soltanto quella che definiamo l’opinione pubblicata. Sempre molto rilevante, si intende, per noi; ma assai meno rilevante per capire cosa sia oggi, e se esista ancora, l’opinione pubblica.


Quindi, se la nostra funzione è quella di rappresentare le posizioni delle organizzazioni per cui lavoriamo presso chi produce l’opinione pubblicata (giornalisti), non è cambiato granché (almeno da questa specifica prospettiva).


Ma se la nostra funzione è anche quella di raccogliere, comprendere e interpretare per le coalizioni dominanti delle organizzazioni le opinioni dei pubblici polverizzati… allora è cambiato moltissimo, la nostra cassetta degli attrezzi è drammaticamente vuota.


Da riempire con urgenza, prima che il processo di disintermediazione che, non casualmente, ci investe – come indicava, riferendosi ovviamente ad altro, Francesco Alberoni nel 1977 in Istituzioni e Movimento – proprio nel momento di maggiore istituzionalizzazione delle nostra funzione nelle organizzazioni, ci travolga rendendoci sostanzialmente cristallizzati, sub servienti e, alla fine, inutili.
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