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Le lobby nella “cura” della democrazia

18/12/2022

Vincenzo Manfredi

I lobbisti seri, etici e consapevoli, che rispettano la legge e che sono orgogliosi di poter contribuire con la loro professionalità al processo democratico non hanno nulla a che vedere con i criminali prezzolati. I nostri colleghi giornalisti che parlano di “pascoli” dovrebbero ascoltarci e capire il valore strategico del nostro lavoro. Scrive Vincenzo Manfredi, Delegato nazionale Lobby e Advocacy FERPI.

Non ci sono dati precisi su quanti siano gli esperti di relazioni pubbliche, public affairs e lobby che lavorano in Italia. Mentre alcuni famosi giornalisti parlano in televisione di lobbisti che “pascolano” in parlamento, potremmo azzardare una cifra: quasi centomila sono i professionisti delle relazioni pubbliche – non solo lobbisti – ma tutti quei professionisti che sono specializzati in comunicazione, una disciplina quindi della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente.

Un’immagine quella del pascolare in parlamento che non è offensiva per i relatori pubblici ma lo è per la democrazia, che come sistema complesso ha bisogno dei relatori pubblici e dei lobbisti per essere equilibrata e consapevole.

Dopo lo scandalo #Qatargate c’è una nuova tempesta perfetta nei confronti di una professione che anche i più informati continuano a non voler capire. La rappresentanza di interessi, etica e consapevole, è frutto di analisi, studio, approfondimento. Le tecniche del lobbying e del public affairs sono uno strumento manageriale evoluto che consente alle organizzazioni di essere consapevoli e pronte – all’interno della complessità sistemica – nel rispondere alle sollecitazioni e ai cambiamenti.

Rappresentare interessi legittimi, sebbene particolari, non ha nulla a che fare con i sacchi di banconote che faccendieri e delinquenti sono disposti ad accettare in cambio di non si sa quale processo di influenza. Tutti i professionisti del settore non rappresentano interessi e non analizzano i sistemi complessi in cambio di sacchi di banconote ma sulla base di contratti di rappresentanza regolati dal diritto civile. Certo ciò che manca è una regolamentazione della professione: non è certo colpa dei lobbisti se non si è mai riusciti ad arrivare ad una legge che regolamenti il sistema.

La questione è molto complessa: riguarda prima di tutto la trasparenza del processo democratico, la trasparenza del processo decisionale pubblico.

La Ferpi in quanto associazione di persone – che da più di cinquant’anni rappresenta i relatori pubblici, i comunicatori, i public affairs manager e i lobbisti – da sempre auspica che ci possa essere una legge che regoli il sistema di rappresentanza, una legge capace di riconoscere il valore della professione e della “cura” che i relatori pubblici apportano al processo democratico e al decision making. In questo la cura ha a che vedere con il trasferimento, sui tavoli negoziali, delle istanze e dei processi delle organizzazione per rendere il processo decisionale informato e consapevole e per dare alla collaborazione pubblico privato un contenuto strategico di creazione di valore duraturo e sostenibile.

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