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One Brand, One Identity: quando le imprese si fanno brand

06/12/2013

Si è tenuta lo scorso 4 dicembre l’VIII Conferenza sulla Comunicazione e sui Media organizzata dal Master omonimo dell’Università Tor Vergata, in collaborazione con Enel e con il patrocinio di Ferpi e della Società Italiana Marketing. Il commento sulle tematiche emerse di _Simonetta Pattuglia,_ direttore del Master e presidente CASP di Ferpi.

“Quando l’impresa diventa più grande, il range delle attività diventa così vasto e le manifestazioni del brand così complesse, che tutto deve essere governato e gestito esplicitamente. Questo è il momento in cui il branding diviene una significativa attività mainstream di management”: è sufficiente riportare questa frase tratta di W. Olins (2008) per riuscire ad abbracciare d’un sol colpo tutte le issues emerse durante l’VIII Conferenza promossa dal Master in Economia e Gestione della Comunicazione e dei Media dell’Università Tor Vergata di Roma in collaborazione con Enel e con il patrocinio di Ferpi e della Società Italiana Marketing.
Il branding e le sue mille sfaccettature strategiche ed operative sono state infatti al centro di una giornata intensa di paradigmi, stimoli e suggestioni portate non solo dagli esperti della facoltà di Economia dell’ateneo romano ma anche da una squadra nutritissima di direttori di strutture di marketing e comunicazione di aziende di tutti i settori merceologici, come di top manager di società e di agenzie di comunicazione. Insomma, senza attribuirsela formalmente fra le mission dell’incontro, di fatto, si è realizzato un vero e proprio “summit” della comunicazione contemporanea.
Nulla poteva infatti essere più aggregante della tematica del branding, in un momento in cui la comunicazione, e il marketing nel suo complesso, debbono fare fronte alla più grande crisi economica e di mercato che l’Occidente ricordi dopo quella del ‘29 del secolo scorso. Il branding abbraccia infatti concretamente il marketing, beninteso, ed è anche in profondità associato al design (e non solo quello del logo ma di tutto quello introiettato nei prodotti, nei servizi e nei manufatti di comunicazione d’impresa), come alla comunicazione esterna ed interna, come alle human resources.
La marca diviene oggi il “canale multicanale” attraverso cui l’organizzazione presenta se stessa a se stessa e ai suoi mondi esterni.
Da una ricerca di S. Pattuglia (2010-2015), sulla comunicazione integrata nelle grandi aziende italiane e presenti in Italia, nel medio periodo, emergono gli obiettivi di marketing connessi fortemente a valorizzazioni “reputazionali”: la fidelizzazione dei clienti piuttosto che la crescita della quota di mercato o anche il ROI. Pressoché scompare, fra gli obiettivi di medio termine, la creazione di immagine su cui negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso tante parole comunicative si sono spese.
Le strategie di comunicazione inserite nel proprio contesto organizzativo e nella propria cultura aziendale divengono pertanto, primariamente, strategie di comunicazione interna sinergiche a strategie di comunicazione esterna rivolte anche alle reti di vendita (interne e distributori esterni) come alla clientela diretta; strategie volte a costruire e gestire brand in un ottica di medio periodo ; promozione della cultura dell’eccellenza operativa attraverso programmi in tutti i paesi in cui un’impresa sia presente come fra le sue divisioni come fra le funzioni di staff. Nelle imprese si parla quindi di progetti integrati di medio-lungo periodo di comunicazione interna ed esterna; del coinvolgimento di tutti i livelli di comunicazione esterna ed interna, compreso il vertice organizzativo; del brand, insomma, come leva di marketing strategico.
Questo significa che i brand oggi debbono:

Essere fondati sulla “condivisione” e quindi sulla “personalizzazione”: gli esempi recenti delle campagne di Coca Cola, prima, e Nutella Ferrero, poi, risultano paradigmatici;
Essere “trasparenti” verso il proprio consumatore: a partire dalle etichette di packaging i valori su cui si fonda l’impresa debbono trasparire così come grande coerenza valoriale deve emergere nell’integrazione fra online e offline;
“Dormire con i consumatori” (Lindstrom): il che vuol dire un’analisi continua del consumatore, nei suoi desideri e aspirazioni, come creazione di vicinanza con il brand che consente al consumatore di appropriarsi del brand stesso (basti pensare al World Nutella Day e al ruolo di influencer della blogger Sara Rossi);
Raccontare il consumatore: la campagna on e offline, social e televisiva, “Guerrieri” di Enel è tra le più esemplari dando voce a coloro che ce la fanno malgrado…, facendo assurgere lo storytelling on/offline a struttura per eccellenza e a linguaggio della comunicazione contemporanea;
Coinvolgere gli “influenti” non solo celebri: vengono in mente i grandi testimonial come Muhammad Ali per Louis Vuitton, ma anche gente anonima però con un nome in cui riconoscersi, come nel caso di Coca Cola;
Realizzarsi nella prosumership fra produttore e cliente/consumatore: parliamo di co-creatività, co-creazione, crowdsourcing; il caso di Zonin e “MyFeudo” con il prodotto open source vinicolo “Principe di Butera” è emblematico di questa nuova logica strategica;
Essere entertainment ovvero la marca diviene divertimento – commu-tainment – per coinvolgere e ingaggiare come nel caso di Metro e Ikea;
Essere “spazio fisico”: luogo in cui la marca si esprime come in Nivea Lab e Absolute Vodka Wall, oltre che eccellentemente, da sempre, per Disney;
Consistere in “esperienza” più che in oggetto di shopping: con l’emozione che vada oltre il marchio. Come ha recentemente affermato il Wall Street Journal, bisogna “vivere” i marchi più che possederli: “taste, touch, travel”, gustarli, toccarli, viaggiare per viverli da vicino;
Avere necessariamente ormai una dimensione digitale: Burberry of London ammonta a 16 milioni di likes su Facebook, senza menzionare le centinaia di milioni di fans che appartengono alle dimensioni social di artisti, cantanti e calciatori.

I brand oggi quindi sono digitali, social e mobile; prevedono una continua evoluzione del marchio-logo a rappresentare il continuo e costante sviluppo dell’identità; sono necessariamente sempre più stretched ( Virgin è uno dei brand più estesi in categorie che si conosca ma anche i luxury brands – come Bulgari ad esempio che va dalle pietre preziose ai resort nei più bei paradisi tropicali – ormai non vanno per il sottile!) e sempre più chiamati a rispettare il politically correct ( Barilla e la recente questione omosessuale lo dimostrano); sono sempre più spesso alleati inusuali in un’ottica coopetitiva (Ines de la Fressange lavora con Chanel, Roger Vivier e contemporaneamente con i grandi magazzini giapponesi Uniqlo e francesi di fascia medio bassa La Redoute). I brand sono tali se rendono servizi “veri” e concreti al consumatore, pensiamo al Tesco Homeplus Virtual Subway nelle metropolitane coreane e al mobile wallet di Starbucks che ha permesso in pochi mesi dal lancio l’aumento del 16% del suo fatturato negli Stati Uniti.
Il brand, infine, non riguarda più solo le organizzazioni produttive ma comincia a riguardare i Paesi nella loro completezza e complessità: il cosiddetto country branding che paesi come Brasile o anche Canada (“Upgrade to Canada”) stanno sperimentando, è in grado di influire sul country of origin effect da sempre appannaggio per l’Italia ("l’Italia primo valore di un brand” in food, luxury, arte, titolava qualche giorno fa Italia Oggi) ed oggi pericolosamente vacillante secondo moltissimi indicatori di benessere e performatività approntati dai grandi organismi internazionali, Ocse in testa.
Viste le molteplici dimensioni, il brand che i consumatori posizionano nella loro mente deriva da un modello dinamico dell’identità organizzativa che si muove fra ascolto dei consumatori e degli stakeholder e la capacità di dare riposte da parte dell’impresa, in cui sono peraltro inevitabili le disfunzioni ricomprese fra due polarità estreme: il “narcisismo” di talune imprese e brand (“arrogant bastard” per Hatch e Schultz) che si esprime nelle loro strategie e linguaggi comunicativi e quello di un “iper-adattamento” alle situazioni di contesto e alle volontà, spesso anche distoniche e irresponsabili, dei consumatori (“headless chicken”).
Concludendo: cosa le imprese, e in genere le organizzazioni, debbono oggi (tentare di) tenere sotto controllo? Sicuramente i “gap” fra le dimensioni erogate del brand (quella attuale, come quella ideale oppure desiderata, o anche formalmente comunicata) e quelle percepite dai suoi pubblici interni ed esterni (ovvero quella culturale interna all’impresa, o quella auto-comunicata attraverso internet e i social) ovvero… in tempi di velocissimi cambiamenti, che avvengono soprattutto in una dimensione digitale, tentare di allinearsi il più possibile con le dimensioni della marca a ciò che il consumatore, opportunisticamente o generosamente, dalla marca stessa pretende.

L’VIII Conferenza sulla Comunicazione e sui Media ,insieme ad Enel, Ferpi e Società italiana Marketing, ringrazia i Manager delle Aziende e Istituzioni partecipanti: ALITALIA LOYALTY, BARABINO & PARTNERS, BURSON & MARSTELLER, CINECITTA’ STUDIOS, COCA COLA, ENEL, ERICSSON, FEDERAZIONE ITALIANA SCHERMA, FOX CHANNELS ITALY, GTECH, INAREA, MINDSHARE, RAI, SAATCHI & SAATCHI, SCUOLA SUPERIORE DI POLIZIA, SNAM, WPP ITALY.
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