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Litigation PR: le (possibili) aree vulnerabili

09/11/2017

Stefano Martello (*)

Continuano gli interventi dedicati al tema affrontato nel recente volume "Litigation PR", a cura di Stefano Martello e Roberta Zarpellon. Questa settimana proprio il curatore del libro dedica il suo intervento ad un auspicio di metodo per la gestione.

 

Lo sappiamo fin troppo bene. Auspicare un cambiamento senza aver precedentemente delineato lo scenario (nel quale quel cambiamento interverrà) e definito le parti (che da quel cambiamento sono interessate) si risolve spesso in un annuncio sterile, buono per far sobbalzare sulla sedia una platea sonnecchiante o per rinvigorire una diretta twitter. Ed è proprio per questo, per senso di responsabilità e per razionalizzazione dello sforzo, che con Roberta Zarpellon e con tutti gli Autori e le Autrici abbiamo voluto dedicare uno dei primi capitoli alle aree vulnerabili. Che sono molte, anche se spesso “laterali” rispetto all’argomento centrale e, per questo, più insidiose e ben camuffate nell’ostacolare un corretto quanto equilibrato accreditamento delle Litigation PR. Tra queste aree vulnerabili quella più insidiosa riguarda sicuramente il Comunicatore ed il suo accreditamento (professionale e sociale) a più velocità: efficace in quelle organizzazioni che conoscono bene la risorsa relazionale; parziale in quegli ambiti che ancora si ostinano (per dolo o per semplice miopia, poco importa) ad esercitare una comunicazione formale e di mero riempimento dell’organigramma; assente in quelle organizzazioni che la considerano come una perdita di tempo tout court. Proprio questa instabilità (peraltro lampante in ambito pubblico dove da 17 anni resiste una simil legge che potrebbe essere studiata oramai come esempio di archeologia della comunicazione) di fatto ostacola un processo di creazione della fiducia già peraltro viziato da una certa diffidenza culturale e di cui, pure, abbiamo stretto bisogno in una ottica di creazione/attuazione di un modello condiviso che per ogni parte professionale coinvolta preveda obblighi, diritti e limiti. E proprio sulle possibili mansioni del Comunicatore si innesca la seconda area vulnerabile che riguarda proprio la Reputazione e la sua gestione in caso di coinvolgimento in una controversia giudiziaria. Ma quanti dei nostri interlocutori considerano la Reputazione come un valore e non come un principio antistorico, soprattutto in tempi liquidi e fangosi come quelli che stiamo percorrendo? Quanti, ostinatamente, si adagiano ancora su di un tempo (apparentemente) galantuomo?

I Comunicatori sanno bene che i ritorni di una reputazione correttamente gestita (in tempo di pace prima che in tempo di crisi) sono corposi e per nulla aleatori, ma in quanti lo sanno fuori dalla cerchia?

E non è forse questo il motivo per cui le Litigation PR italiane, ancora prima di aver configurato un modello d’azione condiviso, siano state già idealmente inserite in uno schema di comunicazione di crisi che solitamente sconta (ove presente) una fase di Preparazione al rischio superficiale?

Perdonatemi se invece di chiarire e definire domando e rilancio. Ma in fondo, è questo il senso del libro che il Gruppo di lavoro ha voluto curare: chiamare in causa tutti coloro che, a prescindere dal singolo abito professionale, ci possano aiutare a rispondere queste domande, integrando regole e limiti di cui dobbiamo tenere necessariamente conto nell’economia di uno strumento complesso e profondamente interattivo e delle tante sfide che ci attendono.

Nel corso dei tanti confronti multidisciplinari che hanno anticipato la scrittura qualcuno ha sostenuto (con una certa ragione) che semplicemente manca il tempo; che quel ritardo maturato esige una risposta immediata e decisa che colmi il vuoto ad ogni costo. Da qui, per esempio, l’idea di un modello di Litigation PR di tipo adattivo che ricalchi in qualche misura i modelli anglosassoni già esistenti e funzionanti. Ma il rischio (che, peraltro, ci siamo già assunti nel caso della comunicazione per gli Studi professionali, con quel tono muscolare evocato da Biagio Oppi) è che i nostri occhi siano rivolti naturalmente sulla vetta e sul tocco della Croce e non si accorgano che i lacci delle nostre scarpe sono lenti. Potremmo anche arrivare sulla vetta, senza esserci slogati una caviglia o senza aver inciampato nei nostri stessi lacci, ma sarà stata una questione di mera fortuna. Niente di più e niente di meno.

 




 

(*) Curatore con Roberta Zarpellon di Litigation PR, Pacini Giuridica, 2017
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