Beniamino Buonocore
Dai testimonial agli influencer le imprese sono così concentrate nel declinare storie che si dimenticano di dover essere loro a dover essere una storia, un racconto in cui le persone possono immergersi e ispirarsi. La riflessione di Beniamino Buonocore.
Dai, proviamo a fare qualche riflessione sul tema degli influencer che non sia collegata a loro stessi. Anche perché, come al solito, si rischia di pensare che la soluzione, o il problema, sia legato a ciò che appare in superficie.
Il caso del pandoro, a ben vedere, possiamo ricondurlo alla solita marchetta, più o meno nota, più o meno appariscente, a cui dovremmo essere abituati. L’incapacità di molti brand di essere il racconto di sé stessi; l’incapacità di avere una relazione sana con il pubblico; e soprattutto l’incapacità di partecipare alla vita delle persone, se non travestiti, è qualcosa di cui, sembra, non vogliamo prendere atto. E questo, al contrario della marchetta del pandoro, dovrebbe interessarci di più.
Il tema è che l’idea di qualcuno che ispiri comportamenti legati a un prodotto è sempre esistita. Si chiamavano testimonial, usavano linguaggi pubblicitari diversi, ma il senso è assolutamente lo stesso. Pensate davvero che ci sia una differenza sostanziale tra il pandoro e il caffè unico e possibile che accompagna la vita del super figo? Dai!
La questione, vera, è che le imprese sono così concentrate nel declinare storie, nel raccontare possibili mondi fantastici (almeno come prospettiva), che si dimenticano, e non sappiamo quanto consapevolmente, che dovrebbero essere loro a dover essere una storia, un racconto in cui le persone possono immergersi e ispirarsi.
C’è una domanda che, io credo, sia fondamentale farsi: perché le imprese, ovvero la loro idea di marca, non riescono ad essere influencer di sé stesse? Perché hanno bisogno della mediazione di un altro soggetto? Nel caso del pandoro, ciò che stupisce è il perché una marca abbia avuto bisogno della mediazione di un terzo soggetto per fare beneficenza?
Eppure i segnali della possibilità di una comunicazione basata sul fatto “di essere storia” ci sono, quanto meno nei linguaggi. Si nota in rete che ci sono personaggi che sono influencer di sé stessi. C’è il tizio che fa i panini, che poi utilizza la mollica per fare le polpette (l’ho scoperto per caso). C’è la ragazza che protegge i telefoni con pellicole e cover, che ti diverte a vedere come fa; c’è la ristoratrice che si mostra in tutta la sua complessa semplicità; c’è il negoziante di abiti che parte dal suo intendere lo stile e ti fa vestire come si veste lui. E di esempi ce ne sono tantissimi, tutti esempi di come l’idea di marca, per così dire, prende la parola e si mostra.
Certo, possiamo riflettere che per le grandi marche diventare racconto può essere molto più complesso. Ma complesso non vuol dire impossibile: ci sono diversi modelli narrativi che è possibile utilizzare, come le analogie, le similitudini, la capacità di esprimersi come farebbe un personaggio che incarna quella storia. Ma temo che la vera complessità risieda in un modello culturale (inteso come cultura d’impresa) in cui si tende ad assecondare linguaggi ed aspettative anziché crearne e proporre di nuovi.
Il mondo dei Social è la rappresentazione di un modello narrativo Fiction, ma, se ci pensate, dovrebbe essere il contrario. Viviamo in una realtà di storie possibili, verosimili, che ci sta facendo perdere l’abitudine, e direi il gusto, di narrazioni del vero. Viviamo in una realtà in cui siamo ispirati non da ciò che io sogno, ma da ciò che vedo che gli altri, facilmente (mah?) fanno.
E questo, inevitabilmente, si ripercuote sui brand che si adeguano a questa realtà, prevalendo l'oramai obsoleta idea che devi adeguare l’offerta alle richieste del mercato, anche in termini di linguaggio.
La prospettiva, invece, che vedo sana, è aspettarsi che i brand capiscano che il loro essere parte del mercato passa dalla capacità di essere loro stessi una storia a cui le persone possano ispirarsi. Storytelling, narrazione, storie, usate il termine che preferite, è qualcosa fisiologicamente innata in ognuno di noi. È lo strumento privilegiato per creare scenari possibili, ragionare su aspettative, validare obiettivi. Le storie sono uno strumento di relazione che trasferisce agli altri esperienze e possibilità, e che ci permette di imparare, a patto che trasferiscano possibilità pragmaticamente vivibili e con delle prospettive.
Se un modello narrativo ti mostra un mondo dove puoi utilizzare un social azzurro per far diventare il tuo corpo e la tua sensualità una professione, ci sarà chi accetterà tale “racconto” come valido, e lascerà tutto il resto per seguire quel modello di vita e di comportamento mostrato da quel ambito narrativo.
Le storie ispirano gli altri, e questo non può essere modificato. Gli influencer, con la loro vita, sono racconti in cui ci immergiamo, sono racconti in cui, per caso (si fa per dire) incontriamo anche i brand. Ma non stiamo partecipando alla vita del brand, e dunque non stiamo apprezzando il suo modo di essere e di proporsi. Non lo stiamo scegliendo per ciò che può essere importante per noi; lo stiamo scegliendo perché lo incontriamo nella storia di un altro, quasi fosse un caso. Tra le altre cose, presto ci dimenticheremo di lui.
Concentriamo la nostra enfasi dialettica sulla tizia del pandoro, ma la complessità non è lì; e tra un po’ passeremo oltre. La complessità è nella distorta relazione tra i brand e i loro pubblici, ed è una questione con radici profonde. C’è chi ipotizza la fine della nostra influencer regina; chi ipotizza che in fondo ne uscirà vincente (come sempre); e c’è addirittura chi pensa che concentrarsi sulla vicenda del pandoro distragga da altre priorità.
Evviva. Ma tra mille ipotesi possibili, proverei a dedicarne qualcuna a come riuscire a modificare un modello culturale e sociale in cui il possibile e il verosimile abbiano più valore del vero. Perché se non risolviamo la questione, sempre più ci troveremo proiettati in un metaverso di incubi irrealizzati, e la cosa non mi sembra una prospettiva interessante.