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Adattare il "cambiamento" al "cambiamento"

11/11/2015

Toni Muzi Falconi

Governare il cambiamento” implica necessariamente un adeguato uso dei processi comunicativi, Con l’ormai acquisita porosità fra interno e esterno di una organizzazione e con le insistenti e continue pressioni e intromissioni nel suo processo decisionale degli stakeholder oggi la questione del “governo” dei sistemi di relazione con gli stakeholder e una professionale attenzione all’impatto che questi producono sulla qualità della singola decisione, è divenuto il drammatico dilemma che turba i sonni di ogni leader consapevole. La riflessione di Toni Muzi Falconi.

Governare  il cambiamento culturale in una organizzazione


Di questi tempi, la questione del cambiamento è davvero pervasiva. Forse eccessiva e - per molti aspetti - anche fastidiosa.

Va dato però atto che il primo a porre questa questione in modo pubblico e con clamore nel nostro Paese fu l’allora giovane socialista Claudio Martelli nel 1982 a Rimini, quando intitolò a ‘"Governare il cambiamento", la prima conferenza programmatica del partito (PSI) di cui era allora  vicesegretario, e che venne dedicata a “un’alleanza riformista fra il merito e il bisogno”. Aggiungo anche che la scelta di usare il termine “governare” anziché quello di “gestire”, fu significativa (anche se la distinzione concettuale allora fra “governo” e “gestione” non era emersa con chiarezza…).

Non esiste oggi società di consulenza di direzione che non offra servizi di “change management”. Di più: così come queste - a differenza del passato - offrono anche servizi di comunicazione e di relazioni con gli stakeholder, anche le società di consulenza di relazioni pubbliche iniziano a offrire servizi analoghi. “Governare il cambiamento” implica infatti e necessariamente un adeguato uso dei processi comunicativi, e quindi non deve  stupire che se ne occupino anche  le società di relazioni pubbliche.

Con l’ormai acquisita porosità fra interno e esterno di una organizzazione (sociale, privata e pubblica) e con le insistenti e continue pressioni e intromissioni nel suo processo decisionale degli stakeholder (interni e esterni) oggi la questione del “governo” dei sistemi di relazione con gli stakeholder e una professionale attenzione all’impatto che  questi producono sulla qualità della singola decisione e sui  suoi tempi di attuazione, è divenuto il drammatico dilemma che  turba i sonni di ogni leader consapevole.

La questione del cambiamento può essere anche fastidiosa, ma non certo eccessiva, quando “disruption” (altra buzzword  di cui conviene diffidare…) è una delle parole più presenti non solo negli articoli di management mainstream, ma nelle stesse strategie  aziendali.

2.

Se dunque è vero che tutto cambia in continuazione - con accelerazioni e ritardi sovente dovuti a fattori raramente “gestibili”, anche dai leader più capaci - per poter fornire un supporto di valore a chi ne ha bisogno, occorre sapere che il DNA (meglio, l’epigenetica) essenziale di un “governo” consapevole di quel cambiamento non può prescindere da una piena consapevolezza “culturale” dell’identità di una organizzazione e dei suoi obiettivi e dal suo equilibrio con le aspettative degli stakeholder. Non è un caso dunque che le organizzazioni più riflessive parlano di “cultural  change”.

Questa importanza specifica del DNA nell’organizzazione comunicativa che intende governare il cambiamento è anche il senso del Melbourne Mandate (GlobalAlliance2012), a sua volta emanazione diretta degli Stockholm Accords (Global Alliance 2010).

Ma “culturale” in che senso? Cosa distingue un tradizionale processo di change management da uno di cultural change management?

La risposta è semplice: per l’organizzazione non ha più senso intraprendere una azione di  adeguamento dovuto allo scenario che cambia, oppure nel caso di un cambiamento voluto e teso a cambiare un qualsiasi scenario esistente, anche di un semplice processo produttivo o di marketing, senza avere chiarezza intorno alle caratteristiche epigenetiche (uniche, non ripetibili) della sua identità. Identità che di per sé detiene una essenza culturale e ha a che fare con storia, principi, valori, riferimenti storici della organizzazione e del suo settore/mercato di riferimento.

3.

È del tutto normale che chiunque si trovi, volontariamente o meno, coinvolto in un cambiamento - dalla semplice sostituzione di una vite, alla modifica nella composizione di un gruppo di lavoro - desideri sapere chi lo ha deciso, perché, quali i vantaggi, per chi, e più in generale che cosa l’organizzazione rappresenti per lui/lei.

Se dunque è vero che parlare di cambiamento è diventato forse banale, è altrettanto vero che per l’organizzazione qualsiasi percorso di cambiamento presume complessità  tali da risultare talvolta impossibile da raggiungere o comunque richiede risorse e tempi eccessivi rispetto ai vantaggi presunti da un suo raggiungimento. Osservando invece la durabilità nel tempo delle organizzazioni (per chi scrive è questa la sostenibilità), sempre più precaria, non cambiare o non saper cambiare produce conseguenze non solo sui vantaggi competitivi ma sulla loro stessa esistenza.

L’analisi dei connotati culturali di una organizzazione richiede a chi la compie (analista) una attività di ascolto ben più articolata della tradizionale intervista con le leadership (sempre più temporanee ed effimere) per comprendere le aspettative degli stakeholder e tarare gli obiettivi, e richiede anche una particolare e intensa attenzione alla sua produzione narrativa presente e passata.

4.

Infine, occorre - come dire - “adattare il cambiamento al cambiamento” tenendo conto delle sue brusche e inattese accelerazioni e/o rallentamenti, e per farlo diventa opportuno incorporare una leva di monitoraggio. Per farlo è fondamentale assicurare il sostegno attivo, pubblico e continuato delle leadership… ma per poterlo mantenere nel tempo diviene necessario anche fornire loro un “cruscotto” aggiornato che  le rassicuri sui progressi nonché sui tempi e i costi a suo tempo definiti. Gli indicatori e i metodi di rilevazione per questo dinamico “cruscotto” applicano normalmente criteri e metodologie di rilevazione oggi forse inadeguate.

Pensiamo ad esempio alla comunicazione che pur sempre costituisce la “colla” che tiene insieme l’organizzazione e che di certo non è gratuita. Ritengo possibile adattare la metodologia pre-post suggerita (e applicata molte volte con soddisfazione) suggerita anni fa  dal Gorel (governo delle relazioni).

In sostanza si tratta di due indicatori per la valutazione di una relazione comunicativa tra l’organizzazione e gli stakeholder previamente identificati:

a. Il primo  valuta la dinamica e l’efficacia dei contenuti da comunicare o comunicati relativamente a tre profili:

  • familiarità percepita del contenuto comunicativo;

  • credibilità della fonte comunicante;

  • credibilità dello stesso contenuto.


b. Il secondo valuta  invece la qualità dinamica della relazione percepita dallo stakeholder, relativamente a quattro profili:

  • fiducia nella relazione;

  • impegno nella relazione;

  • soddisfazione nella relazione;

  • equilibrio di potere nella relazione.


Questi due indicatori possono essere misurati con una mini-batteria di domande con un esercizio che va condotto prima dell’avvio del progetto di cambiamento, durante e dopo. Così che siano rilevati gli spostamenti e sia anche possibile intervenire per correggere il tiro in corso d’opera.
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