Attenti ai rischi per l'opinione pubblica
29/06/2009
Web e crisi del business dell'informazione: il vero problema non è se l'industria delle notizie riuscirà a sopravvivere ma, piuttosto, quali news verranno prodotte e distribuite e che tipo di opinione pubblica contribuiranno ad alimentare.
di Carlo Formenti
Anno 2025. Forse la carta stampata non sarà ancora sparita, ma è probabile che soltanto ristrette minoranze di lettori nostalgici, perlopiù oltre i sessanta, compreranno i vecchi giornali (ammesso e non concesso che sopravvivano editori capaci di estrarre valore da simili mercati di nicchia).
Naturalmente – su questo gli esperti che da qualche settimana analizzano la crisi del business dell’informazione sembrano essere d’accordo – ciò non implica la morte dell’industria delle news.
Acquistati per pochi centesimi l’uno e scaricati – come oggi avviene ai brani musicali – su computer, telefonini, palmari e nuovi dispositivi specifici (dopo il Kindle di Amazon, monitor elettronici «pieghevoli» come nel film «Minority Report»?), milioni e milioni di articoli circoleranno ogni giorno in Rete per essere consumati da altrettanti lettori.
Oppure ci si inventerà altri modelli di business e tecnologie oggi impensabili.
Il vero problema, però, non è se l’industria delle notizie riuscirà a sopravvivere, ma quali news verranno prodotte e distribuite e che tipo di opinione pubblica (posto che tale termine conservi qualche significato) contribuiranno ad alimentare.
Gli scenari che ci vengono prospettati sono diversi, ma condividono almeno tre elementi:
1) l’era dell’informazione generalista è tramontata. Cartacee o virtuali, audio o video, poche o tante, le news saranno rigorosamente personalizzate. Ognuno costruirà il proprio palinsesto in relazione alle proprie peculiari esigenze, e gusti e competenze.
2) Ogni produttore-distributore di informazioni costruirà il proprio catalogo misurando in tempo reale il gradimento dei lettori, i quali, con le loro scelte di navigazione, «voteranno» sui contenuti, decidendo vita e morte di argomenti, firme e generi.
3) Comunque si evolvano tecnologie e modelli di business, i costi di produzione dovranno essere drasticamente ridotti, il che comporterà un inevitabile abbassamento della qualità del prodotto.
Il terzo punto è contestato da chi sostiene che la produzione amatoriale di informazione, «certificata» dal filtro degli aggregatori (motori, portali, ecc), è in grado di soddisfare qualsiasi esigenza di qualità. Ma non è vero: aggregatori e blogger sono riciclatori dell’informazione professionale, per cui, se quest’ultima è scadente, tale sarà anche l’informazione amatoriale.
Ma sono, soprattutto, le conseguenze dei primi due punti a mettere i brividi.
Da un lato, infatti, evocano l’immagine di un’opinione pubblica frammentata, fatta di tante piccole tribù che condividono un numero limitato di conoscenze e informazioni, dotate ognuna del proprio idiosincratico patrimonio culturale e dominate da capitribù (opinion leader) carismatici.
Dall’altro, prospettano lo scenario di un’informazione in cui le minoranze, qualunque sia la qualità dei loro argomenti, avranno accesso alla parola esclusivamente nella misura in cui faranno fatturato (pubblicitario). E con questo la sfera pubblica teorizzata da Jurgen Habermas, il luogo del libero confronto e dell’interazione fra tutte le voci del corpo sociale, sarà definitivamente morta e sepolta.
tratto da Corriere Economia del 29 giugno 2009