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Avvocati e giornalisti una "Santa Alleanza"

18/11/2008

Avvocati e giornalisti si ritrovano a volte alleati e a volte avversari. Ma recenti ricerche dimostrano che l'immagine degli avvocati nei media è peggiore di quella costruita dalla gente comune. Una riflessione di Giovanni Valentini tratta da _la Repubblica_.

“Ma è davvero sempre necessario andare in tribunale per avere un po’ di giustizia?” (da “La palude” di Massimo Martinelli Gremese, 2008 pag. 155)


In quel triangolo delle Bermude costituito dalla politica, dalla giustizia e dall’informazione, avvocati e giornalisti si ritrovano a volte alleati e a volte avversari. Alleati, quando condividono la difesa di un caso, di un indagato o di un imputato. Avversari, quando dissentono sull’interpretazione di una determinata vicenda, sull’attribuzione delle relative responsabilità e quindi sul verdetto finale.


La ragione di questa difformità è semplice. L’avvocato, per definizione professionale, è un difensore di parte, un rappresentante di interessi individuali. Il giornalista, per ruolo e responsabilità deontologica, è (o dovrebbe essere) al di sopra delle parti, un interprete dell’interesse generale. Ma in fondo entrambi perseguono il medesimo obiettivo: e cioè la ricerca della verità, almeno quella giudiziaria, se non proprio la verità assoluta.


Perché allora l’immagine degli avvocati nei media è peggiore di quella costruita dalla gente comune? Il dato risulta da tutte e due le ricerche presentate ieri al congresso nazionale forense di Bologna, a cura l’una di Maria Pia Camusi (Censis) e l’altra della sociologa Marina D’Amato (Università Roma Tre). E può essere tanto più utile cercare una risposta, proprio all’indomani dì due controverse sentenze della magistratura come quella che ha assolto i vertici della polizia sulle violenze nella caserma Diaz in occasione del G8 di Genova e quella della cassazione che in pratica ha autorizzato l’eutanasia per Eluana Englaro.


È chiaro, per esempio, che in questi due casi le differenze di opinione derivano dall’ottica diversa dell’avvocato e del giornalista. I difensori della polizia, avendo ottenuto un verdetto a loro favorevole, sostengono ovviamente che “è stato sconfitto un teorema”. I giornalisti, chiamati a valutare l’intera vicenda e appunto a interpretare le reazioni della gente che alla lettura della sentenza in aula ha gridato “Vergogna!” , non possono fare a meno neppure in sede di cronaca di riferire quel senso d’ingiustizia che i pestaggi e le false prove lasciano inevitabilmente nell’opinione pubblica.


Così, a proposito della povera Eluana, la sensibilità individuale, l’etica e perfino la religione possono influire sulla valutazione della sentenza emessa dalla cassazione, anche al di là delle ragioni strettamente giuridiche. Tra gli stessi cattolici, avvocati o giornalisti, le opinioni divergono in base a una posizione individuale più o meno integralista. Per quanto sacro rispetto si possa avere per il Diritto, e ancor più in questo caso per la vita umana, l’interpretazione della legge in qualche misura è sempre soggettiva.


All’immagine degli avvocati, certamente non giova poi il processo mediatico, la spettacolarizzazione dell’inchiesta o del dibattimento, l’amministrazione della giustizia nei talk-show televisivi prima che nelle aule di tribunale. Non c’è bisogno di citare casi specifici, né tantomeno nomi e cognomi, per dire che certe apparizioni dei difensori in tv fanno più male che bene ai rispettivi assistiti. E spesso finiscono per nuocere anche a loro stessi, alla credibilità della loro funzione e dell’intera categoria.


È vero, d’altra parte, che gli avvocati in Italia sono decisamente troppi: 210 mila contro i 17 mila dell’Inghilterra e i 44 mila della Francia. e questo provoca fatalmente una competitività disperata che contribuisce a dilatare artificialmente, per così dire, il mercato dell’assistenza legale. Tant’è che, come ricorda il collega Massimo Martinelli nel saggio citato all’inizio di questa rubrica, l’ex presidente delle camere penali, Ettore Randazzo, arriva a proporre il numero chiuso o almeno il numero programmato nell’accesso alla professione.
Ed è stato più recentemente lo stesso presidente del Consiglio nazionale forense, il professor Guido Alpa, a chiedere la cancellazione dagli albi di 25 mila avvocati che non esercitano più la professione e di altri 25 mila che dichiarano un reddito inferiore ai settemila euro all’anno.


«Intanto – si legge ancora nel libro La palude – la proposta di riordinare sommariamente la professione è rimasta lettera morta.»
Che cosa si può fare, dunque, per migliorare l’immagine degli avvocati nei media e a monte i loro rapporti con l’informazione, nell’interesse più generale dei cittadini? A parte ovviamente l’impegno reciproco al rispetto, alla correttezza e alla collaborazione, c’è una “santa alleanza” che le due categorie possono sottoscrivere su alcuni punti fondamentali. Ne citiamo qui solo due.


Il primo non è affatto contro la magistratura, alla quale in uno Stato di diritto compete un’alta responsabilità istituzionale, ma piuttosto in difesa della giustizia giusta. E riguarda la “vexata quaestio” della separazione delle carriere o distinzione delle funzioni fra magistrati inquirenti e giudicanti, fra pubblici ministeri e giudici. Fino a quando nel processo non sarà garantita la parità fra accusa e difesa, e di conseguenza la cosiddetta “terzietà del giudice”, il ruolo dell’avvocato resterà inevitabilmente subalterno, nell’impossibilità concreta di svolgere indagini autonome e nella necessità quindi di ricorrere a qualsiasi espediente tecnico o procedurale per indebolire il castello accusatorio, guadagnare tempo, rallentare o ritardare il giudizio.


L’altro punto riguarda i processi contro i giornalisti, quelli penali per diffamazione e quelli civili per risarcimento danni, magari in solido con i propri editori. Ormai è in atto una persecuzione politico-giudiziaria contro chi diffonde notizie sui processi in corso, si permette di dubitare dei risultati di un’indagine o addirittura di criticare il lavoro del singolo magistrato. E gli organismi di categoria, ordine dei giornalisti e federazione nazionale della stampa, farebbero bene ad assumere al più presto un’iniziativa congiunta per difendere un diritto fondamentale di tutta l’informazione, minacciata dalla riforma della giustizia che reca la firma del ministro Angelino Alfano.


Ma anche gli avvocati, intanto, potrebbero fare la loro parte. In primo luogo, solidarizzando con i giornalisti in una mobilitazione comune, e poi, magari, rinunciando a presentare querele palesemente infondate o ancor più citazioni civili che spesso sono tanto esose sul piano economico quanto intimidatorie su quello professionale.


tratto da la Repubblica del 15 novembre 2008
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