Creare comunità virtuali: una sfida professionale per tutti i relatori pubblici
05/08/2009
Come i social media hanno cambiato la vita professionale di quanti operano nelle Rp? Come i nuovi media si sono sviluppati negli ultimi anni e quali nuove competenze dovrebbero avere i relatori pubblici per tenersi al passo con gli sviluppi tecnologici? Un'interessante intervista di un gruppo di studenti bulgari del CIPR a Toni Muzi Falconi.
“L’abilità nel creare comunità virtuali è una sfida professionale rilevante per i relatori pubblici di tutto il mondo”. È quanto afferma Toni Muzi Falconi durante l’ora trascorsa con un gruppo di studenti bulgari dell’Aperion Academy – centro accreditato del CIPR – a discutere e a condividere impressioni su come i social media (Wiki, Twitter, Facebook, ecc.) hanno cambiato le nostre vite professionali.
La conversazione è stata incentrata su diversi aspetti dei nuovi media – come si sono sviluppati negli ultimi anni, quali nuove competenze dovrebbero avere i relatori pubblici per tenersi al passo con gli sviluppi tecnologici, se ci siamo adattati al cambiamento o lo abbiamo adottato, ecc.
Ritieni che i social media siano stati effettivamente inglobati nella pratica delle rp?
La risposta è molto semplice – no. Non credo che i social media si siano felicemente integrati nella pratica corrente e tradizionale delle rp. I social media sono un fenomeno nuovo e mutevole e quindi per riuscire ad integrarli nella pratica delle rp è necessario, innanzitutto, capire di cosa si tratta. Secondo me, più del 50% dei relatori pubblici non ha ancora ben capito cosa sono i social media. Solo per fare un esempio: se mi aveste posto questa domanda soltanto due anni fa, ci sarebbero stati sì e no due o tre piattaforme di social media. Oggi ne abbiamo almeno 6 e forse tra due anni ne avremo 18 e sono tutte diverse una dall’altra.
E’ quindi molto difficile considerare i social media come un insieme da integrare nella professione delle relazioni pubbliche. Quello che voglio dire è che non si possono confrontare, per esempio, Wiki e Twitter, due cose totalmente diverse. Anche quando è arrivata la televisione, ci abbiamo messo un bel po’ di tempo a capire cosa volesse dire per la nostra professione. E forse ancora oggi abbiamo difficoltà a capirlo.
Come fanno i relatori pubblici ad adattarsi alle nuove sfide?
Ovviamente tutto questo ha profondamente mutato la professione. Come facciamo noi relatori pubblici ad adattarci alle nuove sfide? Beh, quando siamo costretti ad adattarci, come in questo caso, tendiamo ad avere un approccio più reattivo che proattivo. Non si tratta di un fenomeno creato da noi e quindi non siamo stati né proattivi né creativi. Ci limitiamo a tentare di gestire le conseguenze che ricadono sulla nostra professione. Teniamo soprattutto presenti gli aspetti dei social media che consideriamo rischiosi per la nostra visione tradizionale delle rp.
Le multinazionali e le grandi organizzazioni in generale sono assai più preoccupati delle conseguenze dei social media più che interessati alle opportunità che potrebbero offrire. Alcuni dei miei colleghi hanno una visione più ottimistica e pensano che le rp siano padrone dei social media. Io non la penso così, credo che le rp siano al servizio dei social media e tendiamo ad adottarle in ritardo e anziché essere precursori.
Sei d’accordo con Michael Murphy che ha detto che i relatori pubblici sono in vantaggio rispetto ai pubblicitari nello sfruttare le opportunità offerte dai social media?
Vedete, si tratta di uno di quei problemi che possono essere visti come le due facce di una medaglia. La comunità dei pubblicitari per molti anni ha avuto reazioni negative nei confronti di internet. Tuttavia, l’industria pubblicitaria è oggi colpita in termini reali da internet e dai social media così duramente che vi si sta adattando molto rapidamente, più del settore delle relazioni pubbliche. Quindi penso che Michael Murphy (CEO, Trimedia International) forse ha ragione, ma solo perché abbiamo meno da perdere. Ma questo, secondo me, non significa che i relatori pubblici abbiano capito e adottato i social media, e non vi si siano semplicemente adattati.
Le social media relation dovrebbero essere insegnate in un corso diverso da quello dedicato alle media relation tradizionali o integrate nei programmi di questi corsi?
Non è una questione da poco. Vediamo qual è la situazione – oggi in Europa ci sono circa 30-35 università che hanno iniziato a proporre corsi specifici dedicati ai social media. Negli Stati Uniti troviamo più o meno gli stessi numeri, e questo vi dà la sensazione di come l’Europa si stia adeguando. Temo, tuttavia, che la motivazione dei corsi dedicati sia dovuta al fatto che i professori dei media tradizionali non hanno la più pallida idea di cosa siano i social media e di come vadano insegnati, mentre i docenti più giovani, che hanno maggiore familiarità con i social media, vedono una buona opportunità per avanzare nella loro carriera professionale. E quindi sono lì a richiedere e a spingere per corsi specializzati in social media.
Ci sono alcuni rischi nella divisione/separazione. La prima è che gli studenti più giovani saranno verosimilmente più attratti dai social media che da quelle tradizionali, e quindi, se vedono che nei programmi di studio questi sono separati, saranno portati a considerare i media tradizionali come una cosa vecchia e i social media come una cosa nuova. Questo però non è vero, perché oggi i media tradizionali stanno molto rapidamente integrandosi con i social media, al punto da rientrare essi stessi nei media tradizionali.
Questo può certo costituire un problema, perché se i social media vanno sotto il cappello dei media tradizionali e i docenti di questa materia non ne sanno nulla finirà che gli studenti non impareranno niente sui social media. E’ quindi una domanda che non ha ancora una risposta….
Come hai appena detto, i media tradizionali stanno rapidamente integrandosi con i social media. Quindi non possiamo dire che i social media mettono a repentaglio la sopravvivenza dei media tradizionali?
I media tradizionali sono fondamentali per le istituzioni democratiche e noi sappiamo bene che è preferibile praticare la nostra professioni in paesi democratici piuttosto che in paesi non democratici. Dobbiamo dunque difendere, rinforzare, sostenere e consolidare i media tradizionali; dobbiamo fare tutto il possibile affinché continuino a esistere e a prosperare e a integrarsi completamente con i social media, che non sono democratici per definizione. Se prendete il 100% dei contenuti dei social media, la parte democratica è di molto inferiore al 50%. Succedono cose terribili là fuori. Ovviamente non sto giudicando se sia giusto o sbagliato, ma le cose stanno così.
Non ho nulla contro i social media o internet, che sono utilizzati da individui e gruppi che hanno aspirazioni non democratiche: ritengo che ciascun individuo sia un mezzo e può quindi fare quello che vuole. Sono assolutamente contrario ad ogni forma di regolamentazione. Ma penso che più diventa tradizionale, meno sarà negativo anche se aspetti negativi ce ne saranno sempre.
Penso che tutti i settori dell’istruzione – università, professori e tutti i soggetti attivi nei processi educativi -dovrebbe essere interessati a conservare le istituzioni democratiche e quindi ritengo che i social media dovrebbero essere incorporati nei corsi sui media tradizionali.
Quali sono le nuove competenze che i relatori pubblici dovrebbero sviluppare per tenere il passo con i più recenti sviluppi tecnologici?
Noi abbiamo una pratica professionale e un corpo di conoscenze che hanno alcuni pilastri molto interessanti. Uno di questi si chiama, sin dalla fine del 19° secolo, organizzazione di eventi. Questo rimane ancora uno dei ruoli fondamentali della nostra professione: in pratica, in funzione di qualsiasi interesse – sia sociale, pubblico o privato – organizziamo eventi per attirare l’interesse di pubblici ben definiti e il committente tenta di promuovere o sostenere o presentare prodotti, processi, idee, politiche, ecc.
L’arrivo dei social media ha enormemente ampliato questa opportunità, perché non solo consentono di creare numerosi eventi, ma anche di creare gli spazi nei quali questi eventi si svolgono. Così invece del solito evento per il quale si cerca la sede più idonea, albergo o spazio, dovremo imparare a creare eventi ininterrotti in un ambiente virtuale.
Stiamo quindi modificando la nostra professionalità e diventiamo architetti per creare spazi nei quali i pubblici non soltanto sono chiamati ad ascoltare, che è il classico obiettivo di chi organizza un evento, ma anche a parlare tra di loro: c’è quindi una conversazione orizzontale tra i nostri pubblici. Il nostro ruolo, in quanto esperti comunicatori, è non soltanto creare uno spazio, ma anche renderlo attraente perché ci sono tanti altri spazi che ci fanno concorrenza.
La creazione di comunità virtuali è quindi di gran lunga la sfida più impegnativa che dobbiamo affrontare. Oggi un evento fisico ha poco senso se non è collegato ad un evento virtuale ed ogni evento virtuale ha pochissimo senso se non è collegato ad un evento fisico.
Per esempio, state mettendo in piedi una conferenza: c’è un ‘prima’, un ‘durante’ e un ‘dopo’ e ognuna di queste fasi dovrà essere supportata e facilitata da una comunicazione virtuale. Si possono avere domande che arrivano da fuori, attraverso Twitter, e-mail, chat-text, sms o quant’altro. Ci potranno essere video che scorrono con i vostri contenuti, e si potranno segmentare i pubblici a seconda dei loro interessi, affinché possano creare le loro comunità virtuali nello spazio che avete organizzato per loro, e così interagire tra di loro.
Questo significa che non stiamo soltanto lavorando sui contenuti, ma anche sulle forme, aspetto assai importante. Non siamo mai stati molto abili nel creare le forme: è un mestiere che abbiamo lasciato ai designer o agli architetti. Oggi dobbiamo invece recepire tutto questo: non possiamo essere bravi in tutto, ma dobbiamo almeno sapere come governare il processo. Ecco dove ci ha portato la concorrenza.
Quindi, secondo te, la concorrenza diventerà sempre più agguerrita?
Esattamente. Non soltanto è aumentata la concorrenza tra i relatori pubblici, ma anche con molte altre professioni perché, ovviamente, non siamo gli unici detentori dei social media – ci sono molti altri che sono fortemente orientati ai social media e ogni singolo individuo è autorizzato e effettivamente usa i social media e quindi è un mezzo. Il paradigma tradizionale della nostra professione – siamo noi i registi, siamo noi i portavoce… tutto questo è andato in frantumi, non esiste più. Chiunque può interagire e noi non possediamo più niente. E se vogliamo tenere il passo, dobbiamo stare molto attenti a quello che succede, dobbiamo sapere di tecnologia ed ecco un’altra competenza indispensabile: perché non si può lasciare la tecnologia esclusivamente in mano ai tecnici, che sono comunque sempre indispensabili. Il relatore pubblico deve sempre avere un quadro completo della situazione.
Dobbiamo impegnarci con gli aspetti più tecnici del nuovo stile di comunicazione o possiamo limitare il nostro impegno solo alla redazione dei contenuti?
Vorrei approfondire solo un punto: non si tratta solo dell’aspetto tecnologico e neppure solo dell’aspetto contenutistico, anche l’aspetto formale è molto importante. Ovviamente, possiamo discutere sulla separazione tra contenuti e forma: i filosofi lo fanno da sempre, e io non avrei obiezioni se il contenuto includesse anche la forma. Ma se invece si considera il contenuto secondo gli schemi tradizionali dei relatori pubblici, allora dobbiamo tenere in grande considerazione anche la forma.
Da questo punto di vista, quali sono le sfide che i relatori pubblici dovranno essere preparati ad affrontare nei prossimi anni?
Voglio citarne solo una che di solito non viene presa in grande considerazione e che invece, secondo me, è la più importante. Sin da quando la nostra professione ha cominciato a consolidarsi, il valore aggiunto di cui ci vantavamo erano l’abilità e la capacità di modificare le opinioni dei nostri pubblici in modo che queste opinioni si mutassero in comportamenti.
Il cliente, sia un governo o un politico, un partito politico, un produttore di saponette o una organizzazione del settore pubblico, o una ONG, vi pagherà per modificare le opinioni perché è vittima di uno stereotipo, e questo stereotipo è che alla fine l’opinione del pubblico muterà in comportamento.
Non credo che questo sia più vero: credo che ci sia un gap crescente tra opinione e comportamento. Le ragioni sono molteplici, mi limiterò a citarne un paio: una è che i pubblici continuano a frammentarsi e quindi non c’è più un unico ‘pubblico’, ma ci sono infiniti segmenti di pubblico e tutti questi pubblici cambiano nel corso della giornata: lo stesso individuo ogni giorno è membro di diversi pubblici perché cambia le sue opinioni sullo stesso argomento a seconda del profilo che sta interpretando in quel momento, e questo perché mancano i punti di riferimento. Mi spiego meglio.
Se decido di camminare per strada e dopo un’ora prendo l’automobile e guido per un’altra ora e poi prendo la metropolitana servendomi del mezzo pubblico. E poi, dopo un’altra ora, prendo un motorino .. e alla fine viene qualcuno che mi chiede la mia opinione sulla mobilità nelle aree urbane, beh, mi troverò a dare quattro risposte diverse alla stessa domanda, visto che ho modificato quattro volte il mio comportamento e quindi la mia opinione sul singolo argomento.
Ovviamente le opinioni sono molto importanti, ma non sono più necessariamente quelle che indirizzano i comportamenti. E quali sono le implicazioni? Lo stesso vale per i comportamenti di voto, di consumo, ecc. Se questo sia vero, va dimostrato. Se 15 anni fa avessi avuto un cliente che mi avesse detto “Spenderemo la tal cifra per adeguare le risorse umane”, io sarei stato in grado di modificare l’opinione di un certo numero di politici o di consumatori. Sulla base della mia esperienza professionale avrei detto sì o no, lo faccio o non lo faccio. Oggi non si può più dire né garantire niente.
E allora quali sono le implicazioni per noi? Non dobbiamo certo tralasciare le opinioni, non direi mai una cosa del genere, ma dobbiamo concentrarci molto di più sui comportamenti. Perché nel momento in cui i nostri clienti cominceranno a capire che c’è una discrasia crescente tra opinioni e comportamenti, non saranno più disposti a pagarci per cambiare le opinioni. Ci sono molti modi per concentrarsi sui comportamenti ed è una problematica che non riguarda soltanto il mondo delle relazioni pubbliche ma anche, e forse ancor di più, l’industria delle ricerche. Ci sono modi nei quali si possono osservare i comportamenti e trarne insegnamenti molto più di quanto non si possa imparare osservando le opinioni.
Come dovremmo ricercare o osservare i comportamenti?
Ci sono molti modi di farlo – i prodotti di largo consumo hanno spesso degli indicatori, ci sono dati, si conoscono i codici a barre – e questo serve a capire come e perché le persone hanno comperato un certo prodotto. Ci sono diversi strumenti utili ad osservare i comportamenti, ma in modo passivo. Poi ci sono sistemi attivi: nel caso delle rp tradizionali, abbiamo gli opinion leader.
E allora perché non reclutiamo terze parti volontarie che sostengono, ascoltano e osservano e le mandiamo sui punti vendita ad osservare i comportamenti dei pubblici? Così invece di usare terze parti come testimoni li usate come ascoltatori. Questo è un sistema, ma costa molto. Eppure anche le ricerche di opinioni costano molto e dovremmo riconoscere che oggi non servono più. E allora perché non trasferire parte dell’investimento all’osservazione da parte di volontari e militanti? Questa è una classica operazione di rp.
tratto da CIPR’s Student’s Blog
(traduzione F.C.)