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Dal Quarto stato al Quinto

31/10/2011

E’ passato oltre un secolo dal celebre quadro di Pelizza da Volpedo e il mondo del lavoro è profondamente cambiato. Emerge in tutto il mondo occidentale, la realtà del Quinto Stato, costituito prevalentemente dai _knowledge workers._ Un mondo, soprattutto in Italia, misconosciuto, che fatica a trovare una collocazione nell’economia postindustriale. Una classe, in primo luogo politica, con cui lo Stato e il mercato devono imparare a fare i conti. Prima che sia troppo tardi. L’analisi di _Massimiliano Panarari._

di Massimiliano Panarari
C’era una volta il Quarto stato, eternato nell’iconografia progressista dal celeberrimo quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, naturale oggetto di rappresentanza da parte della sinistra e del movimento sindacale. Poi, passato oltre un secolo e mezzo, l’Occidente è entrato nella sua fase postfordista, e moltissimo è cambiato.
La gloriosa marcia del proletariato è stata così sostituita dalle mobilitazioni di altri soggetti sociali, come è avvenuto domenica 16 nelle piazze e lungo le strade di tante metropoli occidentali (dove, a differenza di quanto successo purtroppo a Roma, tutto si è svolto in modo pacifico).
Soggetti, infinitamente meno omogenei, e in marcia verso sorti assai poco magnifiche e progressive, com’erano, a detta dei socialisti dell’epoca, quelle del Quarto stato, poiché la classe operaia esiste certamente ancora, ma la sua consistenza numerica risulta ben diversa da quella dell’età dell’industrialismo, i gruppi sociali si sono frammentati e moltiplicati, hanno preso sempre maggiormente piede le istanze postmaterialiste, e l’individualismo è divenuto moneta corrente della società liquida (in negativo e in positivo).
E, così, l’universo del lavoro si è decomposto e riarticolato, facendo emergere, tra le neoclassi, il Quinto stato, uno dei veri protagonisti delle proteste contro la dittatura della finanza e il neoliberismo di queste settimane. Perché a provare la più cocente disillusione nei confronti delle promesse mancate dell’economia smaterializzata sono proprio loro, i lavoratori della conoscenza, i knowledge workers, gli analisti simbolici: tante etichette diverse per indicare, in tutto il mondo postindustriale, i nuovi ceti che rappresentano la punta avanzata dell’economia creativa.
I campioni del freelancing, esponenti di quel lavoro autonomo “di seconda generazione” che, nel nostro paese, continua a essere oggetto di fraintendimenti e scarsa comprensione, e non andrebbe affatto confuso in termini sociali e, soprattutto, simbolici con le categorie del lavoro autonomo tradizionale, “di prima generazione” (dove si ritrovano artigiani, commercianti, le professioni liberali tutelate dagli ordini e i coltivatori diretti). A strutturare la “filosofia” del freelancing è il professionalismo, l’ideologia borghese che aveva costituito il collante delle middle classes, e che stabilisce la discendenza diretta di questo lavoro autonomo di nuova generazione dall’universo culturale e “antropologico” dei ceti medi.
Sono, in buona sostanza, i pivot dell’attuale economia postmoderna e immateriale, ai quali, però, i nostri tempi neoliberali (tra l’altro, i primi responsabili della proliferazione di tali figure) non garantiscono una collocazione neanche lontanamente assimilabile, sotto il profilo dello status sociale, a quella di cui godeva l’otto-novecentesca borghesia delle professioni liberali, con le relative frustrazioni psicologiche e di reddito, che stanno alimentando i movimenti degli “indignati”.
E la situazione raggiunge il parossismo, come spesso accade, proprio a casa nostra. Se in altre nazioni i freelance, per la loro centralità per l’economia postindustriale, ricevono da parte dei governi una certa attenzione (anche in questi tempi di recessione), in Italia, invece, diventano, insieme ai lavoratori dipendenti e a reddito fisso, i perfetti capri espiatori delle brutte e inique politiche finanziarie del governo di centrodestra. Non da ultimo perché, nel paese delle caste e delle corporazioni, non vogliono (in parte) e, soprattutto, non riescono, per ragioni anagrafiche e culturali, ad avere una rappresentanza politico-sindacale.
Si tratta infatti di ceti, potremmo dire ontologicamente, post-sindacali, la cui autopercezione è fondata sull’autonomia e il senso della propria professionalità, cresciuti, non soltanto per loro responsabilità, nell’idea dell’etica del successo (ma anche del lavoro) quale indicatore esclusivo della propria identità; e, quindi, scarsamente a proprio agio all’interno di sindacati di impostazione fordista, che, peraltro, sicuramente non impazziscono per loro.
Come non stravede per questi professionisti dell’economia cognitiva una certa sinistra, viziata da un’ottica troppo novecentesca, sempre tentata di assimilarli a una reincarnazione, sotto spoglie flessibili, di un vecchio “nemico di classe” (il mondo del lavoro autonomo) e insofferente nei confronti della loro (legittima e sacrosanta) tendenza all’indipendenza.
Ma proprio qui c’è un problema politico, assai rilevante, per i progressisti desiderosi di tornare al governo del paese. Se non vogliamo assistere impotenti alla condanna dell’Italia a un’ancora più marcata marginalità nella divisione internazionale del lavoro globale, occorre offrire un serio patto di rappresentanza a queste categorie (spesso, anche se non esclusivamente, composte da giovani).
E, a loro volta, i freelance se non intendono convertirsi per direttissima da lavoratori autonomi a working poors (più di quanto non accada già adesso), devono dismettere la loro – radicata – diffidenza nei confronti della politica e accettare l’idea di fornire un contributo in termini di impegno civile, per se stessi e per gli altri, alla vita pubblica. Perché nessun pasto è gratis, come sappiamo. E ci si salva solo insieme.
Tratto da Europa
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