#EP2014: mezzo miliardo alle urne
21/05/2014
Le elezioni europee si avvicinano e l’Europa è un pretesto per parlare di cose di casa e un modo di misurare il consenso. Solo la costruzione di una leadership sarà il modo per creare consenso politico e trasformare la comunicazione dell’Europa da consesso di burocrati misurabile per la sua (in)utilità, a progetto politico ricco di senso e di valore. L’analisi di Matteo Colle.
Mezzo miliardo di elettori, 6 candidati presidenti, un duello TV già fissato per il 15 maggio, moderatrice Monica Maggioni. E intanto la comunicazione politica italiana continua a perseverare nella costruzione di uno spazio simbolico tutto locale, in cui l’Europa è un pretesto per parlare di cose di casa e le elezioni un modo di misurare il consenso di natura politica.
Due osservazioni. La prima. La localizzazione del voto europeo non è un tratto solo italiano, è stato in modo costante il tratto con il quale i partiti nazionali hanno tradotto l’Europa e l’hanno condivisa con i cittadini. A seconda delle scelte politiche l’Europa è opportunità, scelta ineluttabile, salvezza o sciagura. In ogni caso è un organo amministrativo lontano, complesso, che assolve funzioni non chiare e la cui comunicazione viene risolta dalle forze politiche secondo un frame di tipo utilitaristico. A ciò non sfuggono, ancora oggi, le campagne dei nostri partiti nazionali: dal “cambiaverso” del PD, meno Italia in Europa di Forza Italia, in ogni caso il dilemma da risolvere è: serve o non serve, a cosa può essere utile, che vantaggio dà a Mario che “ce lo chiede”?
Attivato questo frame, è evidente che la partita si gioca tutta sulla capacità dell’Europa di dare risposte, vantaggi e aiuti. E il fatto che gli svantaggi superino, secondo alcuni, i vantaggi, è motivo sufficiente per decretare l’inutilità dell’Unione. Si badi, si tratta di una cornice interpretativa molto utilizzata anche per comunicare la politica locale e nazionale. Efficace ma con alcuni esiti contro-intuitivi. In un frame utilitaristico si afferma quella che Ferrarotti indicava come efficienza della delega. Se il mio delegato funziona, risolve i problemi, bene, altrimenti a casa. E se il non funzionamento si ripete, forse meglio smettere proprio di esercitare la delega. Quindi astensione. In quest’ottica ci si può arrischiare a sostenere che l’uso di frame di natura utilitaristica è la premessa di un giudizio sull’utilità della politica e dell’amministrazione pubblica. Di qui alcune conseguenze che conosciamo e che vanno sotto il nome di antipolitica.
La seconda osservazione è sulla cosiddetta personalizzazione della politica. Da oltre 20 anni la politica italiana discute evocando due fantasmi, quello del fascismo e quello, meno drammatico ma più recente, del berlusconismo, assunti come gli spettri di diverse, ma per alcuni simili, derive. Nel frattempo, quasi inosservata e certo sconosciuta ai più, la riforma introdotta dal trattato di Lisbona sta trasformando la campagna elettorale per le elezioni europee, da sempre terreno tutto politico e lontano dagli elettori, in un confronto tra leader. Grazie all’introduzione della possibilità di indicare i candidati presidenti della Commissione (prima scelti in beata autonomia dal Consiglio dei paesi membri e poi ratificato dall’Europarlamento), sono partite quest’anno le campagne presidenziali di Schultz, Tsipras e Junker. Towards a new Europe, L’altra Europa e Believe in People, sono slogan che per una volta non parlano di un’”Europa mezzo”, ma di un “Europa fine”, uno spazio simbolico di cui il leader è incarnazione e garanzia. Di nuovo la conferma; non è più possibile (se mai lo è stato) costruire consenso politico se non attraverso la costruzione di una leadership in grado di rendere visibili e tangibili i valori. E solo attraverso l’incarnazione in un leader sarà possibile trasformare la comunicazione dell’Europa: da consesso di burocrati misurabile per la sua (in)utilità, a progetto politico ricco di senso e di valore.