Esiste un Tribunale dell'opinione pubblica? Un dilemma etico e una richiesta di aiuto. E già le prim
21/06/2005
Alcune riflessioni di Toni Muzi Falconi e un invito alla discussione. Seguono due interventi di replica.
Abbiamo già scritto del libro 'L'etica nelle relazioni pubbliche' di Patricia Parsons appena uscito per i tipi de Il Sole 24 Ore Libri nella traduzione di Florence Castiglioni. Il libro è stato pubblicato grazie ad un accordo fra Ferpi e la collega Rossana Revello che ne ha fatto omaggio ai suoi stakeholder in occasione del ventesimo della sua Chiappe Revello.E' un libro che tutti i docenti di relazioni pubbliche e di comunicazione dovrebbero leggere e far leggere ai loro studenti ed è un libro che ognuno di noi dovrebbe meditare e tenere nel cassetto da consultare in ogni occasione (quotidiana per chi fa il nostro lavoro) sorga un dilemma etico.Fra le tante questioni analizzate dal libro ce n'è una assai delicata e che mi lascia qualche perplessità.Ecco cosa scrive la Parsons:Le nuove leve delle relazioni pubbliche spesso sostengono che un relatore pubblico è come un avvocato: tutti hanno il diritto alla rappresentanza legale. Queste persone ritengono che tutti hanno diritto a dire la loro sui media (tesi difficile da controbattere) e che qualsiasi relatore pubblico che ne abbia le capacità, può lavorare per una organizzazione anche senza condividerne l'etica, proprio come un avvocato non è moralmente associato al cliente e alle azioni di cui il suo cliente è accusato. Persino i clienti ritenuti colpevoli, in un sistema democratico, hanno diritto ad un giusto processo. E infatti, coloro che condividono questa analogia tra le rp e la legge, ritengono che un relatore pubblico degno di questo nome deve essere in grado di mettere le sue competenze a disposizione di chiunque, o di qualunque causa, senza considerare l'etica del cliente. Che sciocchezza. Si tratta di un giudizio molto superficiale su come funziona l'etica. Riconsideriamo questa improponibile analogia con gli avvocati.Gli avvocati rappresentano i clienti, ma quello che argomentano non è la difesa dell'individuo, ma il sistema giuridico che assicura a chiunque un giusto processo. Un sistema che si è sviluppato nei secoli e garantisce le infrastrutture per la difesa del singolo indipendentemente dal suo crimine. Nelle relazioni pubbliche non esiste un sistema del genere. Pertanto, lavorare per un cliente di cui non condividete gli scopi è un po' come prostituirsi. Rinunciate alle vostre convinzioni per un guadagno. Che tristezza, ma capita ogni giorno.Voi cosa ne pensate di questo argomento?Ricordo una serata a Quebec City l'anno scorso e una assai vivace discussione con Anne Gregory, a mio parere una delle persone più competenti, intelligenti e articolate che ho avuto modo di apprezzare in questi ultimi anni.Ebbene Anne sosteneva la tesi della Parsons ed io il contrario.Se è vero dicevo - che per le organizzazioni oggi il tribunale dell'opinione pubblica è più importante di quello della legge e dando per scontato (tutto da dimostrare... ) che il relatore pubblico sia in grado di rappresentare la posizione dell'organizzazione con efficacia di fronte all'opinione pubblica, allora ogni organizzazione, anche la meno pregevole, ha il diritto di essere rappresentata.Mi sembrava un argomento forte, ed ecco che Anne (non avevo ancora letto il libro della Parsons), cogliendomi del tutto impreparato e mettendomi in seria difficoltà, mi tira fuori che gli avvocati non difendono l'individuo, bensì il sistema giuridico che assicura a chiunque un giusto processo. Scornato e incapace al momento di contro argomentare, ho lasciato perdere promettendo una riflessione e una ripresa della discussione.Mi sono ricordato l'altro giorno dell'episodio leggendo il libro e, prima di razionalizzare la mia riflessione e riprendere la discussione con Anne, sarei interessato a ricevere le considerazioni di chi legge questa nota.Che ve ne sembra? Vi pare un argomento fondato?Il relatore pubblico non difende anche lui un sistema democratico che assicura a chiunque l'accesso al tribunale dell'opinione pubblica? Stiamo parlando di due cosi qualitativamente diverse?Davvero dobbiamo essere sempre convinti fino in fondo che il nostro cliente/datore di lavoro ha sempre ragione per poterlo rappresentare con efficacia? E, portando questo argomento fino in fondo, la nostra efficacia professionale diminuisce se non ne siamo così convinti? E, se sì, fino al punto da fare emergere un ulteriore dilemma etico, quello della truffa al cliente perché non siamo così convinti della bontà delle sue argomentazioni? E poi, se questa questione viene esaminata con tanta precisione è possibile che l'etica professionale finisca per confondersi con quella personale e questa con quella dell'organizzazione?Insomma, assumendo una posizione così netta, non si rischia di far saltare le sacrosante differenze fra etica personale, professionale e organizzativa? Aiutatemi per favore a chiarirmi le idee...(tmf)Clicca qui per rispondere
Ed ecco le prime reazioni.Ci scrive una amica che preferisce non firmarsi:
caro Toni,
Mi pare un dibattito segno della confusione dei tempi: i sistemi pubblici si sono evoluti nell'ordinamento politico e giuridico attraverso rivoluzioni, sofferenze, guerre per garantire diritti fondamentali dell'individuo basati su filosofie o ideologie che avevano un obiettivo "etico" (sia esso liberale o marxista). In questo quadro la difesa dell'individuo nel processo giudirico è sorta quasi orizzontamente in tutti i sistemi, eccetto quelli dittatoriali, per garantire l'equità nella gestione della giustizia (checks and balances).Mi pare che non si possa mettere questo tema sullo stesso piano del diritto che si debba garantire a tutti il diritto di rappresentare sui media la propria opinione, e perchè no anche il chirurgo estetico, o la psicoterapia come altri diritti fondamentali?Se allora non sono diritti sullo stesso piano (e non lo sono sul piano della realtà perchè nessun stato al mondo lo fa) la scelta di lavorare senza coincidenza tra obiettivi/valori personali e valori/obiettivi professionali è solo una scelta sul piano individuale.Scelta peraltro assolutamente banale e popolare (i politici, gli imprenditori, i giornalisti etc) che però almeno non dovrebbe trovare excusatio filosofiche che non hanno ground solo perchè è difficile ammettere l'opportunismo di queste scelte personali, il cui confine ognuno ogni giorno sceglie mediando (almeno io molto faticosamente) tra i propri valori/identità personali e le selvagge leggi del business.
E ci scrive Luigi Norsa:Caro Toni,la questione è delicata, da anni sento sollevare specie in occasione di lezioni alle nuove leve la questione dell'etica. Non sono ovviamente qualificato per esprimermi ex-catedra su tale tema che non può che essere valutato e affrontato soggettivamente, posso solo esprimere la mia personale posizione.Ritengo che qualunque committente abbia diritto a richiedere e ottenere un supporto professionale per esprimere sui media o direttamente agli stakeholders la propria posizione. Un professionista della comunicazione può, se lo ritiene, fornire questo supporto affinché gli interessi del committente siano tutelati attraverso una efficace comunicazione della sua versione o posizione. Ci devono essere però dei paletti: se io mi impegno per una efficace comunicazione, devo però assicurarmi nei limiti del possibile che il messaggio sia veritiero, che non sia falso, deliberatamente fuorviante, che non danneggi ingiustamente i diritti di altri, che non impieghi tecniche illegali o immorali. Questo comporta che un professionista faccia un buon uso di scetticismo e diffidenza nei confronti di quanto asserito dal committente e che lui per primo metta alla prova il messaggio.In questo senso la funzione del professionista della comunicazione è simile a quella dell'avvocato: quest'ultimo, è vero, rappresenta il cliente, argomentando non la difesa dell'individuo, ma il sistema giuridico che assicura a chiunque un giusto processo, cioè è un esperto della procedura civile o penale a seconda dei casi. Il professionista è un esperto della procedura di comunicazione, di informazione, di persuasione e di motivazione non importa se questa procedura non è codificata (d'altronde la procedura legale è codificata differentemente da paese a paese).E' difficile trattare questa materia in astratto, va vista nella concreta applicazione. E' necessario per il professionista della comunicazione astenersi dal giudicare il committente, ma valutarne invece il messaggio e le strategie e tattiche di comunicazione. Non è necessario essere convinti che abbia ragione, bisogna però essere convinti che abbia diritto a comunicare quel messaggio in quel modo.E' vero che umanamente non si può lavorare per un cliente di cui non si accettino gli scopi: è una questione etica non tanto verso l'opinione pubblica quanto verso di lui, se lo ritenete un sordido figlio di puttana che vuole perseguire scopi nefasti non riuscirete a mettere il giusto impegno e l'adeguata professionalità al suo servizio meglio lasciare a qualcun altro l'opportunità.Per quanto avido, mi sono capitati un paio di casi in cui ho preferito declinare l'incarico, sono soldi che non ho mai rimpianto. E ci sono d'altronde cause, da altri ritenute rispettabilissime e degne di supporto, per cui non farò mai nulla a favore, ma è una questione di mie opinioni personali, non di etica professionale. Per concludere, un buon aiuto sul fronte dell'etica viene dalla rotariana prova delle quattro domande:La Prova delle 4 domande. Ciò che pensiamo, diciamo o facciamo:
Risponde alla verità?
È giusto per tutti gli interessati?
Darà vita a buona volontà e a migliori rapporti d'amicizia?
Sarà vantaggioso per tutti gli interessati?
Un saluto affettuoso, spero di avere contribuito a confondere ulteriormente le idee: i dubbi sono più etici delle certezze!Luigi Norsahttp://www.luiginorsa.com/