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Giornalismo digitale: il punto a 15 anni dalla nascita

14/09/2011

E’ l’obiettivo di _The Story So Far: What We Know About the Business of Digital Journalism_, uno studio della Columbia Journalism School che fa il punto della situazione dopo 15 anni di ‘’rivoluzione digitale. Non soltanto le questioni tecniche ed economiche ma anche gli aspetti che inevitabilmente hanno coinvolto la professione giornalistica. Nel capitolo che vi presentiamo si affronta un aspetto molto sentito anche in Italia: lo sforzo da parte degli editori di individuare nuovi business.

Le tattiche divergono, ma la strategia è comune: l’editoria giornalistica sta sviluppando nuovi business, non limitandosi a spingere quelli vecchi. E nel fare questo sta sfidando alcune delle ortodossie e dei tabù che hanno rallentato il loro passaggio al mondo digitale.
In generale i ricavi provenienti da queste nuove iniziative sono modesti; non riescono neanche in piccola parte a compensare i dollari persi nel business tradizionale. Ma ci sono segnali incoraggianti, a patto che ci sia una piena accettazione di internet, piuttosto che un tentativo di soggiogarlo ai vecchi modelli di business.
In ogni caso, la ricerca di nuovi lettori e di nuovi dollari sta obbligando le società editoriali a ridefinire chi sono e in che ambiente economico operano.
L’ottavo capitolo di The Story so far si occupa proprio di Nuovi utenti, nuove entrate: modi alternativi di fare soldi, analizzando varie, e curiose anche, esperienze che l’ industria giornalistica Usa sta mettendo in campo: da un servizio di annunci di una stazione televisiva dello Utah che si è trasformato in una risorsa della comunità, a una società che vende ad altri editori annunci che non pubblicherà sul proprio sito, oppure a quell’ altra azienda editoriale che diventa un service provider per piccole imprese della sua zona di mercato.
Il Caso del Chronicle
A Houston, ad esempio, il Chronicle comincia a seguire le piccole aziende familiari (310.000 sono quelle sotto i 10 addetti nel comprensorio della città texana). Ma quello che rende interessante l’ approccio di questa testata è che non si basa sulla vendita di spazi pubblicitari da inserire sulle pagine del sito o del giornale. Chronicle sta invece lanciando un progetto di consulting, vendendo una serie di servizi internet, dalla progettazione di siti web al miglioramento del posizionamento delle aziende sui motori di ricerca. E quando l’azienda vende pubblicità come parte di queste iniziative, è probabile che le inserzioni appaiano su Yahoo o Facebook oltre che su chron.com.
Ma anche se il progetto avrà il successo che Chronicle si augura, Jack Sweeney, direttore del giornale, calcola che non farebbe altro che pareggiare il ricavo attuale derivante da uno dei più grandi inserzionisti del giornale. In altri termini, sarà un grande aiuto ma non è in sé un sostituto del vecchio modello di business.
Ecco il nodo. “E’ diventato un business da centesimi – afferma -. E hai bisogno di molti, molti, molti centesimi.”
Il successo di KSL.com, il sito di una tv dei Mormoni
Molto interessante la storia di KSL.com, il sito della omonima stazione televisiva che fa capo alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’ultimo giorno (i Mormoni).
Gli autori la analizzano in profondità, soprattutto per la sua capacità di imboccare strade nuove nella costruzione di pubblici digitali.
Il sito aveva avuto l’idea di dar vita ad una propria sezione di piccoli annunci, chiudendo il rapporto con l’ azienda che stava già fornendo quel servizio. E presto è diventato un centro nevralgico del Web. Ha oltre 4 milioni di utenti unici e genera sorprendentemente ben 250 milioni di pagine viste al mese e raggiunge il 48,8 % del mercato dove opera, la percentuale più alta di qualsiasi altro mercato editoriale locale dopo il sito del Minneapolis Star Tribune. Mentre i siti delle tv locali hanno in genere una media inferiore al 20% del mercato.
Certo, il sito può contare anche su una audience mondiale, composta dai fedeli della chiesa, che però costituisce solo in parte la ragione di questo successo, dovuto soprattutto alla scoperta e all’ applicazione di sistemi non convenzionali per costruire un pubblico digitale.
In questo quadro il rapporto informazione/pubblicità quasi si ribalta. “E’ una cosa difficile da accettare per la gente dei vecchi media… I nostri contenuti giornalistici danno un timbro di forte affidabilità agli annunci e questi ultimi danno rilevanza alle notizie”. In altri termini, il fatto che i lettori arrivino a fidarsi delle inserzioni con il marchio KSL contribuisce a dare rilevanza e credibilità anche all’ informazione.
Contenuti e pubblicità possono essere scollegati? L’esempio di McClatchy
Il collegamento stretto fra il giornalismo realizzato dalle redazioni e la pubblicità che produce la maggior parte dei loro ricavi sta venendo meno e i media stanno lottando per rimpiazzarlo con qualcos’altro.
Questo potrebbe voler dire, ad esempio, vendere pubblicità su siti che non fanno capo a loro o non controllano, come dice Chris Hendricks, vice presidente della sezione media interattivi della catena di giornali della McClatchy Co. “Stiamo cominciando a convincerci che contenuti e pubblicità possano essere scollegati”.
Così l’ ufficio vendite dei 30 quotidiani di McClatchy, come quello di molte altre testate, vende pubblicità su Yahoo come parte della sua proposta agli inserzionisti locali. Per una compagnia mondiale come Yahoo, “è molto difficile e costoso mettere in piedi una forza vendita locale di una certa portata”, dicono in azienda. Il risultato è che mentre “il giornale tipo ha in generale il 15% di penetrazione in un mercato locale, quando lavoriamo con Yahoo riusciamo ad arrivare fino all’ 80%”.
Così McClatchy ora può chiedere in media 18 dollari per CPM per pubblicità mirate, dice Hendricks. E’ circa il doppio della media per i suoi normali annunci online, anche se, però, deve condividere i proventi con Yahoo. Nel 2010ha venduto circa 15 milioni di dollari di pubblicità su Yahoo nel 2010 e si aspetta di arrivare a 19 milioni di dollari nel 2011.
Con Facebook, invece – raccontano gli autori – il discorso risulta assai diverso: nel novembre 2010 il Wall Street Journal scriveva che il 24% di tutte le pubblicità online in USA apprivano su Facebook, ma producevano meno del 10% del fatturato totale dell’ ad digitale.
Tweet e post “sponsorizzati”
Ora gli uomini del marketing non sono più, come una volta, in balia di un panorama mediatico blindato, ora possono esserne parte attiva ed è per questo che l’accento si sposta sugli earned media. Gli addetti al marketing pensano di poter abbassare i costi della promozione attirando direttamente i consumatori (senza passare attraverso la pubblicità, ndr), processo che, ovviamente, taglia i ricavi dell’ editoria giornalistica. Ma si tratta di politiche editoriali che richiedono un lavoro complesso, che non è alla portata delle competenze di molte testate giornalistiche.
E di scelte che possono comportare anche grossi problemi di etica giornalistica. Alcune aziende, infatti, che hanno introdotto in maniera massiccia il sistema del “tweet sponsorizzato” – con pagamenti di 124 dollari – e del ”post sponsorizzato” (179 dollari), cifre che corrispondono (almeno negli Stati Uniti, secondo quanto scrive il Rapporto) più o meno a quanto una piccola testata pagherebbe per un articolo e ben più di quanto un post di un blog medio otterrebbe mai dalla pubblicità online.
Groupon e i coupon
Ma nessuna di queste iniziative – osserva il Rapporto – si avvicina in termini di potenziale risultato alla moda dei coupon online, di cui è stato pioniere, con un certo successo, Groupon, che Forbes ha definito “la società che è cresciuta più velocemente nella storia del web.”
Le società editoriali sono indecise se unirsi a Groupon oppure farle concorrenza. Anche se potrebbe essere troppo tardi per ottenere ricavi sostanziosi da questo business. Si dice che Groupon stia considerando un’offerta pubblica che potrebbe arrivare a 15 miliardi di dollari. Con un capitale del genere, la società potrebbe fare concorrenza sui prezzi tale da schiacciare i normali concorrenti.
Gadgets, vendite, eventi: ma anche qui i soldi non sono molti
Molte società editoriali stanno poi cercando di incentivare le entrate attraverso più strumenti non tradizionali. Wired Magazine ha aperto a New York durante un negozio vero e proprio, “Wired Pop Up Store”, dove si tengono eventi (come “Geek Dad Family Party”) e sono in vendita gadgets e attrezzi vari. Il New York Magazine finanzia ogni anno una rassegna dedicata al matrimonio, vendendo biglietti al pubblico e sponsorizzazioni alle case nazionali di moda. E si rivolge anche ai disc jockey locali, negozi di abbigliamento femminile, pasticcerie e altre aziende che operano nel settore matrimoniale.
Eventi di questo tipo possono andar bene per il branding, ma tendono a non essere un grande affare in termini di nuovi ricavi.
Fa eccezione per ora l’Atlantic che organizza – con una struttura separata da quella editoriale – una serie di eventi, Atlantic LIVE, diventata una significativa fonte di introiti per la società. Dei 32 milioni di dollari di entrate dichiarati dalla società in una recente inserzione, ben 6 milioni arrivano da questi eventi.
Internet non è un amico o un nemico. E’la realtà
Concludendo – dicono gli autori – la cosa più utile è resistere alla tentazione di pensare che l’ economia del giornalismo digitale possa ridursi a spostare un vecchio modello di business in un nuovo regno. L’ elemento comune nelle strategie descritte in questo capitolo è che esse dimostrano la piena accettazione di internet, piuttosto che un tentativo di soggiogarlo ai vecchi modelli di business.
Quando lo si guarda in questo modo, Internet non è un amico o un nemico. E’ la realtà.
Tratto da LSDI, su cui è possibile leggere anche i capitoli precedenti della ricerca.
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