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Governance: quei dogmi da rivedere

08/11/2010

La teoria della corporate governance, a vent’anni dalla sua nascita, mostra i primi cedimenti. E’ quanto sostiene _Massimo Mucchetti_ che illustra come sia stata proprio la crisi globale di questi anni a far vacillare le convinzioni che fino a qualche tempo fa si riteneva fossero alla base del successo delle imprese.

di Massimo Mucchetti
Fino a ieri l’Occidente credeva che il buon governo societario fosse un essenziale prerequisito del successo delle imprese e dell’economia in generale. La Grande Crisi ha minato questa convinzione. The European House Ambrosetti, in uno studio presentato nei giorni scorsi a Milano, rileva come non esista correlazione casuale tra i risultati delle prime 40 società quotate italiane e la qualità della loro corporate governance. E mostra come nel Belpaese i top manager abbiano in media paghe assai più alte di quelle dei colleghi francesi e inglesi in rapporto alla dimensione delle imprese. E come se le siano pure aumentate nonostante le perdite (si veda anche l’articolo di Giuditta Marvelli a pagina 4). Credevamo che l’Italia non fosse un Paese di eccessi. Ci sbagliavamo. The Economist cita una ricerca dei tre economisti californiani (Erkens, Hung e Matos) sulle 296 istituzioni finanziarie americane con attivi superiori ai 10 miliardi di dollari per concludere nessuno dei dogmi della corporate governance regge a un esame ravvicinato. Nel biennio 2007-08, gli amministratori bene informati non hanno dato prove migliori di quelli ignoranti; le società che distinguevano le deleghe tra chief executive officer (gestione) e presidenti (controllo) non hanno fatto meglio delle altre. Le società con potenti investitori istituzionali e tanti amministratori indipendenti hanno creato meno valore per gli azionisti di quelle all’antica. Un esempio tra i tanti: la Royal Bank of Scotland, esempio di buon governo, scalò tra gli applausi dei fondi l’olandese Abn Amro e si ritrovò, fallita, a farsi salvare dal Tesoro di Sua Maestà.
Che fare dunque? La corporate governance è una teoria lanciata nei primi anni ‘90 da sir Adrian Cadbury e poi precisata dal Sarbanes-Oxley Act americano del 2002 per evitare deviazioni più o meno fraudolente. L’idea è quella di governare l’impresa allo scopo di estrarne il massimo valore possibile a beneficio di tutti gli azionisti, ovvero senza privilegiare chi possa esercitare il controllo. Lo schema presuppone una sufficiente omogeneità d’interessi tra i soci e identifica l’interesse dell’impresa con quello dei soci. Nella City e a Wall Street l’omogeneità d’interessi viene costruita dalle banche d’investimento e dalle loro filiazioni (broker, hedge fund, private equity) che intermediano le forniture di capitale di rischio. Ma nel resto del mondo, pesano anche le famiglie imprenditoriali, le banche, le assicurazioni, le fondazioni. Tutti azionisti con finalità diverse. La corporate governance, figlia del capitalismo manageriale, funziona dichiarando la filosofia dello shareholder value, salvo non renderne conto in bilancio e meno che mai mettendo il valore creato o distrutto nel tempo in relazione alle remunerazioni dei boss.
Chi volesse restare ancora nel recinto di sir Cadbury, avrebbe il dovere di fare manutenzione dando notizie fin qui negate: dal rendimento del capitale corretto per il rischio alle remunerazioni di amministri e top manager, leggibili e complete degli accordi per le buone uscite, cancellando per legge i premi per il silenzio. E magari, come suggerisce Stefano Preda, dichiarare ex post il rapporto tra la remunerazione e il budget cui era legata. Ma siamo sicuri che restare dentro il recinto non ci precluda la vista su quanto di nuovo e di più grande sta accadendo nel mondo?
La riforma dei mercati finanziari, approvata all’inizio del 2010 negli Stati Uniti, prescrive alle corporation l’obbligo di dare notizie non solo sui compensi totali dei capi, ma anche sul rapporto tra la paga massima e il salario mediano, che rappresenta l’indice di disuguaglianza. Un’informazione che richiederà anno dopo anno le sue spiegazioni. II costo del lavoro, dato finora in modo sintetico e isolato, entra in relazione con quello dei proconsoli del capitale. Il presidente Obama non abbatte il recinto del baronetto; del resto nessuno vuole tornare al passato. Ma il Dodd-Frank Act socchiude la porta su una diversa concezione dell’impresa come luogo di convergenza tra fornitori di capitali di rischio e di debito, di lavoro e di conoscenza, di infrastrutture fisiche e virtuali. Questa diversa concezione s’invera nel regime tedesco della codecisione tra rappresentanti del capitale e del lavoro su strategie e nomina del top management e pub offrire al governo dell’impresa una polarità lontana dal capitalismo finanziario degli ultimi trent’anni.
Tratto da CorrierEconomia
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