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Identità, dna, desiderio: le rp come forza di integrazione organizzativa

02/09/2011

L’identificazione del dna specifico di ciascuna organizzazione è la strada più efficace per assicurare un livello accettabile di _stakeholder advocacy,_ la prassi professionale verso cui stanno andando le Relazioni pubbliche. _Toni Muzi Falconi_ ne parla a partire dall’editoriale di Scalfari su _La Repubblica_ del 28 agosto.

di Toni Muzi Falconi
Nel suo domenicale di ieri, domenica 28 agosto, Eugenio Scalfari affronta la questione europea richiamando l’intervento di Napolitano a Rimini di una settimana fa, e lo declina con alcune proposte operative elaborate da Prodi.
L’accostamento è interessante di per sé (l’incerto presente della costruzione europea e il suo nebuloso futuro è, fra tutti, la più angosciante delle questioni che abbiamo politicamente sul tavolo e non si può certo dire che l’Italia sia esente dal gioco al massacro degli Stati Nazione di questi ultimi anni)… ma vorrei assumere una prospettiva più specificamente rivolta al nostro lavoro, alla nostra professione di relatori pubblici.
Provo a mettere insieme alcune recenti suggestioni:

la Arthur Page Society (club molto esclusivo di professionisti e docenti, autore, nel 2008, del documento The Authentic Enterprise) ha avviato con lena i lavori di una commissione speciale che si propone di elaborare e definire la caratteristiche di quello che, forse impropriamente, definisce un ‘nuovo modello’ di relazioni pubbliche.

Non la faccio lunga, anche perché il lavoro è appena agli inizi. In pratica però emerge molto forte la questione dell’identità dell’organizzazione e il ruolo delle relazioni pubbliche nella definizione di questa identità, prima ancora che nella sua rappresentazione con gli stakeholder.
Le caratteristiche di una organizzazione, per default, sono indicate nel suo Statuto. Leggendolo si presume che uno stakeholder possa capire in che cosa una organizzazione si differenzi da un’altra. Sappiamo tutti la realtà: gli statuti sono illeggibili, incomprensibili e riprendono formule e formati buone per tutte le organizzazioni.
Di fronte ad una crescente domanda da parte degli stakeholder di capire meglio e sulla scia di alcune organizzazioni pioniere, è invalsa l’abitudine per molte di avviare processi, di diversa complessità, di redazione di testi che vanno sotto il nome di Envisioning. Con questo termine intendo la definizione di missione (cosa facciamo), visione (dove vogliamo andare in un determinato periodo), valori guida (che ci impegniamo a rispettare nel cammino da missione a visione), strategia (il sentiero che intendiamo percorrere in questo cammino) e di obiettivi tattici (le singole diverse fasi operative del percorso strategico).
Non tutte le organizzazioni seguono queste fasi, ma le più avanzate si. Certamente non pubblicano le ultime due…
I colleghi della Arthur Page riconoscono che per con-vincere (vincere cum: importante qui l’abbandono netto della strada unilaterale e persuasiva) gli stakeholder ad operare, ciascuno a suo modo, a supporto della strategia selezionata i testi fin qui elaborati, anche i migliori, non sono sufficienti.
Si assomigliano fra loro come gli Statuti e adottano una lingua per molti aspetti più forbita e aulica ma usano termini equivalenti e spesso identici. Non emerge il vero dna dell’organizzazione, quello per cui uno stakeholder possa decidere di criticare o sostenere gli obiettivi tattici perché con-vinto della strategia.
Più è specifica la descrizione del dna più diventano espliciti i divari fra comportamenti organizzativi e la comunicazione. Ne consegue che i relatori pubblici devono diventare anche esperti nell’azione collaborativa, una forza di integrazione nell’organizzazione (è quella che da anni definiamo funzione riflessiva e educativa).

La Corte Suprema americana deve ancora decidere se e fino a che punto una organizzazione abbia o meno gli stessi diritti della persona. I casi di non decisione si susseguono da anni. Fra i primi, gli affezionati lettori di questo sito ricorderanno il caso Nike-Kaski. Più recentemente l’abolizione dell’obbligo delle imprese di denunciare i contributi finanziari a singoli partiti o fondazioni di natura politica si è soffermata, senza trovare soluzione, sul tema. Ma ogni giorno, e non soltanto negli Stati Uniti, la questione, in forme diverse (si pensi da noi al recente caso Thyssen), viene proposta all’attenzione del pubblico. E’ evidente che l’equiparazione fra persona e organizzazione avrebbe un impatto assai rilevante sulla sostanza e sulla modalità della narrativa delle organizzazioni di qualsiasi natura.


Non sembri un salto “di palo in frasca” se arditamente passo alla questione della cosiddetta ‘fine del multiculturalismo’ annunciato in questi ultimi mesi un po’ da tutti i governi europei (dall’Olanda all’Inghilterra, dalla Francia alla Germania). Nel lontano 2005 a Trieste, concludevamo il Festival Mondiale delle RP – interamente dedicato alla questione della comunicazione per la diversità, con la diversità e nella diversità – rintuzzando chi ci criticava perché peccavamo di relativismo culturale valorizzando la diversità. Dicevamo che il multiculturalismo rappresenta una sfida assai più impegnativa dell’interculturalismo proprio perché presuppone il confronto fra identità forti… e che l’Europa non avrebbe retto l’urto se non avesse condiviso e definito una propria forte identità.

Ed eccoci di ritorno al tema del desiderio introdotto da Napolitano a Rimini.
“È certamente vero – ha detto uno dei pochissimi italiani di cui oggi mi sento orgoglioso – che nel determinare il benessere delle persone gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme ad essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana. È a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni potranno, in Italia e in Europa, progredire rispetto alla generazione dei padri. La risposta è che esse debbono progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del desiderio". Nella sua conclusione, Napolitano ha esortato i giovani: “Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obiettivi di potere, personalismi dilaganti. Apritevi all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre e diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza”.
La platea lo ha lungamente applaudito, ma mi domando (dice Scalfari ) se quei giovani avessero ben compreso il senso delle sue parole. La loro certezza è il dato che più caratterizza Comunione e Liberazione ma è uno stato d’animo identitario, deriva dallo “stare insieme”. Stare insieme in una comunità che non sembra disposta ad aprirsi all’incontro con “portatori di altre e diverse radici culturali” né ad opporsi a “chiusure, obiettivi di potere, personalismi dilaganti”.
Ecco, è naturale che i nostri colleghi più attenti ritengano che l’identificazione del dna specifico di ciascuna organizzazione sia la strada più efficace per assicurare un livello accettabile di stakeholder advocacy e lavorino intorno alle modalità operative per farlo.
Ed è importante che siano proprio i relatori pubblici a porsi questa questione per primi, spesso accusati, quasi sempre a ragione, di edulcorare la realtà dietro nuvole di parole altisonanti ma spesso vuote di senso. Non è di certo un tema astratto.
E’ forse un caso che IBM si proponga come produttore di soluzioni per un pianeta intelligente…?
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