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Il capitalismo tra valore per gli azionisti e valore per i portatori di interesse

05/09/2020

Furio Garbagnati

Si terrà a Camogli, dal 10 al 13 settembre, la settima edizione del Festival della Comunicazione, quest'anno dedicato alla socialità. Materia viva e pulsante delle nostre società, alla base di ciò che siamo, la socialità è il nostro modo di vivere, di produrre senso, di maturare esperienza. Tra gli ospiti che arricchiranno il palinsesto anche Furio Garbagnati che domenica 13 si confronterà con Alessandra Perrazzelli e Francesco Profumo sul tema del capitalismo e che ci anticipa il suo intervento.

Il tema “Il capitalismo tra valore per gli azionisti e valore per i portatori di interesse” non è certamente nuovo e certamente il dibattito non nasce alla luce della emergenza sanitaria.

Si tratta del più ampio tema sulla adeguatezza della tipologia di capitalismo dominante nel passato anche recente ed il modello di sviluppo che vogliamo concepire per la nostra società.

Chi fa impresa si deve (si dovrebbe) sempre porre alcune fondamentali domande: il mio obiettivo è quello di accrescere il valore per l’azionista, aumentare l’utile, rafforzare la mia posizione rispetto al mercato o contribuire alla crescita del tessuto sociale e del contesto economico in cui opero.

Appare evidente che la risposta a queste domande delimita il crinale tra i due modelli.

L’opzione per un capitalismo tendente a valorizzare il valore per i portatori di interesse rappresenta senza dubbio il tentativo di mettere in discussione e correggere alcune delle più rilevanti distorsioni che la storia del capitalismo ha mostrato.

Detto ciò, è bene chiarire due cose: entrambi i modelli rientrano nell’ottica del capitalismo come lo abbiamo sempre conosciuto e nulla hanno a che fare con una visione etica del capitalismo ma piuttosto con l’individuazione della maggiore efficienza ed efficacia a tutela dei propri interessi.

Non si tratta certo di subordinare gli interessi dell’azionista a quelli collettivi ma di procedere in modo diverso alla creazione di valore “spalmando” i benefici economici su pubblici più vasti misurando e ponderanno i pesi che i diversi interlocutori esercitano sull’organizzazione.

È quindi forse il caso di ampliare il discorso sottolineando come l’ultimo decennio e l’emergenza sanitaria in atto abbiano portato con se una nuova narrazione dell’economia di mercato grazie alla maggiore consapevolezza della necessità di affrontare  le sfide contro i cambiamenti climatici, la corruzione, le disuguaglianze sociali, la revisione dei regimi fiscali e la violazione dei diritti umani.

L’idea che il sistema economico e sociale costruito in questi decenni possa autoalimentarsi ed affrontare crisi sistemiche diverse da tutte quelle che abbiamo conosciuto non può reggere e sostenere uno sviluppo quale quello che dobbiamo prefigurare.

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un neoliberismo incapace di affrontare i grandi tempi della conversione ecologica e della lotta alle disuguaglianze.

Non possiamo fare come Rutilio Namaziano che nel V secolo passando di fronte all’isola di Capraia non accettava i tempi nuovi e giudicando i monaci che li vivevano scriveva “chi si fa infelice da sé per paura di esserlo” che ricorda troppo da vicino chi oggi dichiara che i poveri sono tali perché lo vogliono.

Dobbiamo capire se è possibile uscire dalla dicotomia ben sintetizzata in due frasi, una di Bill Gates ed una di Michael Moore: “Il capitalismo ha sempre funzionato bene, chiunque voglia può trasferirsi in Nord Korea” e “Il capitalismo è un male ed è impossibile regolare il male, puoi solo eliminarlo o rimpiazzarlo con qualcosa di buono per tutti e questo qualcosa è la democrazia”.

Oggi quello che sappiamo è che il capitalismo se vuole resistere rigenerandosi, deve contribuire a costruire una società che garantisca i bisogni della generazione attuale senza compromette il futuro delle prossime.

La pandemia ha mostrato di non essere affatto una livella sociale come qualcuno aveva incautamente predetto.

Come ricordato nei suoi articoli da Alfani e nel libro di Scheidel, l’unica pandemia che portò ad una diminuzione delle disuguaglianze fu la grande peste perché incise essenzialmente sul fattore demografico.

Oggi nulla di tutto ciò sta accadendo e si rivelano sempre più nette le diverse modalità con cui colpisce territori, età, generi e appartenenza sociale.

Certamente stiamo assistendo ad un interesse sempre più alto degli investitori verso i prodotti, anche finanziari più sostenibili verso quei “beni comuni” così fragili che già nel 1968 Garrett Harding li inquadrava come “the tragedy of the commons”.

Lo sviluppo dei meccanismi legati alla reputation che è spesso anche sincera, non si può tuttavia limitare ad un semplice lavaggio della coscienza in pubblico.

Il tema della sostenibilità, ambientale, sociale ed economica non può prescindere dalla lotta alle disuguaglianze e non basta certamente il rispetto di principi come quelli ESG per determinare la soglia di accettazione del cambiamento.

La caduta del muro di Berlino che avrebbe dovuto decretare la vittoria finale del capitalismo ha in realtà acuito la crisi interna al nostro sistema economico.

È giunto il momento di dare risposte che non siano più equivoche ma che pongano veramente ed autenticamente al centro la creazione di una società nuova.

Le immagini drammatiche provenienti dagli Stati Uniti con l’assalto ai negozi dei grandi brand mostrano non solo e non tanto fenomeni di nichilismo ma problematiche di esclusione, richieste di cambiamento e, sì, anche di stravolgimento rimandando alla memoria la cultura pop americana ed i film di Romero.

La domanda, alla quale urge dare una risposta è quindi, se le disuguaglianze siano così fondanti all’interno del sistema tanto da non poterne essere separate o se riusciremo a dare risposte che allontanino per sempre l’apocalisse zombie.

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