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Il cliente non ha più ragione

09/12/2008

Sotto i venti della crisi economica le forbici calano sulla cortesia e sulla disponibilità: il cliente, un tempo vezzeggiato dalle aziende, è diventato un fastidio da liquidare attraverso anonimi call-center. Secondo uno studio, infatti, il consumatore affezionato è un costo ed è meglio favorire il ricambio alzando barriere.

di Michele Smargiassi


«MOMENTA-neamente» è l’avverbio che fa imbestialire. «Tutti i nostri operatori sono momentaneamente occupati! Si prega di attendere!», il tono è garrulo e la musichetta è pimpante. Momentaneamente un corno, ci passiamo delle ore a sentire le musichette, ed è questa la cosa che fa uscire dai gangheri tre clienti su quattro senza distinzione di età, sesso e censo, a Pechino come a Melbourne, a Ottawa come a Lione. È nelle lunghe code agli sportelli virtuali del call-center che cova la sorda frustrazione del cliente.


È al suono dei jingle di aziende senza volto che matura il suo ammutinamento. Cliente? Ma il cliente non esiste più. Sotto i venti della crisi economica globale, le forbici calano sempre più duramente sulla cortesia e sulla disponibilità. È suonata l’ultima ora di una parola nobile.


Be’, non era poi così nobile quella parola, a pensarci bene. I clientes latini erano poco più che schiavi, erano i postulanti alla porta di un potente: da cui il moderno clientelismo. L’ etica bottegaia ne riscattò la dignità: il suo primo comandamento, “il cliente ha sempre ragione”, compie cent’anni (lo inventarono nel 1908 Harry Gordon Selfridge, padre dei supermercati britannici, e César Ritz, patriarca degli alberghi di lusso). Tentarono di smentire Marx: il capitalismo non prevede solo rapporti fra merci, ma anche tra esseri umani. Si è utenti o consumatori di qualcosa (una merce, un servizio), ma si può essere clienti solo di qualcuno. Nel rapporto di clientela c’è quel sovrappiù di cortese gratuità che nobilita lo scambio, c’è il «soprammercato» che costituisce quel capitale immateriale (ma ugualmente redditizio) che si chiama reputazione.


Interessa ancora a qualcuno, la reputazione? Qualche anno fa Codacons lanciò Coritas, un marchio di qualità attribuito direttamente da una giuria di consumatori alle imprese più attente alla clientela. «Un fallimento. Non ha aderito quasi nessuno», ammette il presidente Carlo Rienzi, «un tempo le aziende allevavano la clientela. Ora praticano la caccia di passo». Reclutare clienti conta pi che mantenerli. Ti telefonano a casa a qualsiasi ora, sirene dalle vocine melliflue, ma appena hai detto sì scompaiono dietro un muro di «attenda in linea», di «digiti tre», di «richiami più tardi», voci sintetiche senza orecchie. Gli umani si nascondono. Dai siti Internet aziendali scompaiono i numeri di telefono e gli indirizzi. Le caselle email sono cunicoli senza ritorno. I call-center, orecchie con i muri. E anche quando miracolosamente riesci a parlare con la signorina «buorngiorrsono Silvia compossiutarla?», la meta è ancora lontana. «Le passo il servizio interessato». Ecco, per il 74% dei clienti mondiali la goccia che fa traboccare il vaso è proprio questa: dover ripetere il proprio problema due, tre, dieci volte a operatori sempre diversi finché non cade la linea e bisogna ricominciare daccapo.


Oppure no. Perché i clienti stufi si s-clientano. Con una frequenza inedita in questi ultimi anni. Il 59% degli intervistati da Accenture hanno abbandonato almeno uno dei loro fornitori nel corso del 2007. In Italia, la rabbia del cliente maltrattato sale a livelli mai visti: l’indice di soddisfazione elaborato dal Cfmt (osservatorio di Confcommercio e Manageritalia) è crollato in tre anni dal 70.4 al 63.8. «Una notizia da prima pagina» per il sociologo Giampaolo Fabris: «E’ lo specchio di un mercato che ha rinunciato alla competizione per la qualità e gioca tutto sulla miope concorrenza dei prezzi». Miope perché anche il cliente che abbocca all’offerta conveniente poi pretende qualità, e la sua frustrazione è un boomerang. «E’ un paradosso», aggiunge Fabris, «si riempiono convegni di ‘marketing relazionale’, di human satisfaction, e poi ci si nega perfino al contatto col cliente».


Una volta la fedeltà della clientela era un valore quantificabile. Si chiamava «avviamento», e aveva una precisa quotazione monetaria quando vendevi il negozio. Finito. Il cliente frustrato diventa per reazione un cliente nomade. «E va bene così», rivendica Paolo Landi, segretario di Adiconsum: «Il concetto di cliente affezionato è utile solo alle imprese, va abolito, viva la libertà di scegliere volta per volta». Ma le aziende si adeguano, al nomadismo. «Ci stiamo abituando alla fedeltà poligamica dei nostri clienti», spiega Francesco Cecere, esperto marketing di Coop, la catena distributiva più «fidelizzante»: «non ha senso coccolare il singolo cliente, mandargli a casa gli auguri di buon compleanno e cose così. La clientela ce la giochiamo su qualità e prezzo».


Qualcuno non se la gioca per niente. Una silenziosa pratica del marketing anaffettivo si sta facendo strada. La sua filosofia è diametralmente opposta a quella classica del guru Philip Kotler (meglio mantenere un cliente che trovarne uno nuovo): il cliente è come uno yogurt, è buono quando è fresco, ma dopo un po’ scade, e tenerlo in frigo è pura perdita. Ha un “ciclo di vita” durante il quale lo si può spremere, poi lo si molla volentieri. Come? Basta non rispondergli. I racconti di maltrattamenti commerciali che riempiono le pagine delle lettere dei giornali è troppo vasta perché si tratti solo di una serie di sfortunati eventi. Raccogliendone a centinaia per il suo libro E osano chiamarci clienti (appena pubblicato da Franco Angeli), il marketologo Filiberto Tartaglia ha finito per convincersi che è operativa un’autentica cultura del disservizio organizzato e premeditato; che è «alla sudditanza del cliente che molte aziende sembrano puntare come obiettivo strategico». Un’asimmetria che sembra copiata pari pari dal vecchio rapporto tra cittadino e burocrazia statale.


Secondo questa strategia, il cliente affezionato è un costo. Pretende attenzioni speciali (in effetti, dicono le inchieste, è quel che si attende il 45%), è troppo pratico dei canali d’accesso al fornitore e le usa troppo spesso. Ma nel mondo delle merci usa – e – getta l’assistenza e la manutenzione sono in via di sparizione (con tanti saluti a un’altra invenzione degli anni 80, la “qualità totale”). Quindi il servizio postvendita va ostacolato pi che si può. Lunghe attese, spesso a pagamento (si diradano i numeri verdi), dirottamento su binari morti, call-center scostanti non sono sempre inefficienze, possono essere deliberate strategie. Il cliente insistente stressa il personale, peggiora il servizio e fa perdere tempo: meglio mollarlo. L’eroe forse un po’ mitico di questa nuova tendenza è Gordon Bethune, tycoon texano che risanò la Continental Airlines: si favoleggia abbia cacciato con infamia una passeggera che si lamentava per la mancata distribuzione di noccioline su un volo per Parigi, al grido di «aver comperato un biglietto non le dà il diritto di maltrattare i miei dipendenti».


Il cliente non ha più ragione. «Ha ragione solo se gliela possiamo dare» si legge in una relazione di Internet Benchmarking Italia. Traduciamolo brutalmente: “tutto quello che posso fare per te è venderti una merce a basso prezzo, dopo te la vedi tu”. Il cliente non è il fine del processo produttivo, è solo la sua condizione. A volte, senza saperlo, diventa addirittura una merce: le compagnie aeree low-cost fingono di vendere voli ai passeggeri, in realtà vendono passeggeri agli scali minori le cui società di gestione pagano pur di riempire i loro aeroporti.


Se poi qualche nostalgico insiste nel rivendicarsi cliente, nel pretendere l’antica gratificazione del «solo perché è lei», si rivolga pure alla signorina online, all’ «assistente personale che ti darà le risposte che desideri». L’hanno già assunta parecchi fornitori, si presenta da una finestrella, sorridente, ti guarda negli occhi, pronta e disponibile, spesso ha un nome, qualche volta perfino una voce. È solo una replicante, naturalmente, un androide elettronico, un’immagine animata, ma che pretendiamo di più?
Siamo clienti virtuali, ci spetta al massimo un interlocutore sintetico.


tratto da la Repubblica del 6 dicembre 2008
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