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Il nuovo protagonismo dei creativi metropolitani

19/10/2009

I professionisti del terziario richiedono maggiori tutele e riconoscimenti per il loro ruolo. Aldo Bonomi, dalle pagine de Il Sole 24 Ore, prende le parti di quei ”giovani che avevano creduto e lavorano e vivono in quel segmento di economia ipermoderna della comunicazione e della conoscenza” ma che oggi si trovano esuli nella terra di mezzo della crisi del capitalismo delle reti.

di Aldo Bonomi


Siamo tutti più attenti all’economia reale, al capitalismo dei piccoli, all’Italietta che ce la fa, alle famiglie, ai territori e, udite udite, agli operai. Ne sono contento. I microcosmi a questi soggetti davano, e danno, ospitalità e racconto. Mi prende un dubbio che vorrei discutere. Che ne è, cosa ne sarà, dei tanti, soprattutto giovani, che avevano creduto e lavorano e vivono in quel segmento di economia ipermoderna della comunicazione e della conoscenza? Quelli, per intenderci, che non hanno né ordini professionali, ereditati dalle professioni liberali del 900, come gli avvocati, i notai o i commercialisti, né sindacato, né corporazioni che fanno lobby e parlano per loro.


Si devono sentire, immagino, un po’ “cornuti e mazziati”, come si suoi dire, nelle fabbrichette dell’economia reale. Avevano creduto nella forza espansiva della terziarizzazione, nella società dello spettacolo, nell’economia dei flussi e nelle reti ove si lavora comunicando. Adesso nessuno più comunica con loro come soggetti sociali, come risorsa cognitiva del paese. Ridotti come sono o dentro lo stereotipo della velina, degli addetti alle pubbliche relazioni, per non dir di peggio, o del cognitario, più proletario e precario che portatore di conoscenza. Sono lì, nudi e immobili, vestiti solo della loro partita Iva. Nella crisi non hanno mai fatto il salto verso l’essere capitalisti-personali e, tanto meno, verso l’identità dell’essere classe creativa. Parlo, se non lo si fosse ancora capito, di quel bacino di professionisti e lavoratori individuali che, soprattutto nelle città e nelle piattaforme produttive lavorano nel ciclo del design, della comunicazione, dell’eventologia della rete e delle reti.


Forse è il momento per loro di avere una coscienza di sé che vada oltre il lamento e l’euforia dell’happyhour. Per noi è il momento di riconoscere che anche loro sono, a pieno titolo, un pezzo di quell’economia reale tanto celebrata. Dentro la crisi è apparso in tutta la sua radicalità il legame genetico tra capitalismo manifatturiero delle piattaforme produttive del made in Italy e creatività metropolitana. Così come si è svelata la simbiosi tra crisi del capitalismo delle reti, da quella delle banche, alle grandi catene editoriali, sino alle internet company e alle imprese della pubblicità e del marketing e i flussi di denaro che alimentavano attraverso sponsorizzazioni, consulenze, eventi e campagne media l’esercito delle nuove professioni terziarie metropolitane.


I mitici lavoratori della new economy, che già avevano subito la gelata della bolla calda di inizio secolo, nella grande crisi, si ritrovano in mezzo alle difficoltà dei padroni dei flussi, dalle banche in giù, e alle riconversioni degli investimenti fuori dalle mura, nell’immateriale e nella comunicazione delle imprese leader del made in Italy e delle filiere dei padroncini che avevano iniziato a porsi il problema non solo di come produrre merce di qualità, ma anche di come venderla e incorporarvi immagini e brand. Se fai ricerca e parli con loro, scavi nel loro malessere, ti senti dire che gli operai quando salgono sulle gru in difesa del loro posto di lavoro, giustamente, hanno visibilità televisiva e sindacato. I padroncini e gli artigiani quando si mobilitano, ottengono cassa integrazione in deroga e Bossi e Tremonti che partecipano alle loro assemblee.


Malessere che diventa sottile e triste ironia quando ti fanno giustamente notare che tutte le retoriche di uscita dalla crisi non rimandano né alla vecchia fabbrica fordista, né al solo mondo della manifattura e del saper fare, ma alla green economy e ad una produzione di merci compatibile che incorpori innovazione e simboli adeguati alle nuove tendenze dei consumi. Quello che ho chiamato in un recente microcosmo il «Commartigiano», il mettere assieme le reti dell’artigiania con il commercio, con una cultura dei luoghi e della comunità e con il «.com» della rete.


I più attenti e raffinati, citando un intervento di Enzo Rullani sul blog Firstdraft, si sentono rappresentati dai premi nobel dell’economia Elinor Ostrom e Oliver E. Williamson. Si sentono giustamente protagonisti e artefici di quella terra dimezzo fatta di reti territoriali e reti di impresa ove sono al lavoro. Ti chiedono con rabbia, perché, se siamo con il nostro lavoro consulenti e protagonisti della modernità che viene, la nostra terra di mezzo è solo l’essere in mezzo alla crisi del capitalismo delle reti e alle difficoltà del capitalismo di territorio? Si sentono esuli in patria se, con questo termine antico, vogliamo intendere i territori ove sono al lavoro.
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