La crisi, un'occasione per ripensare la comunicazione
19/04/2011
In tempi di crisi la comunicazione deve rendere conto della propria esistenza. Questo aspetto può essere un’opportunità per superare quella comunicazione che, trascurando la relazione, dimentica il proprio interlocutore. Fatto ancor più grave se avviene in ambito politico. _Pierre Zémor_ analizza la situazione in Francia con parametri validi anche per il nostro paese.
di Pierre Zémor (*)
La comunicazione così come viene intesa da pubblicitari e giornalisti è ormai caduta in discredito, soprattutto per colpa della politica. Durante i “30 anni gloriosi” del grande sviluppo economico aveva acquisito titoli di nobiltà e conservato un volto rispettabile svolgendo un ruolo importante nella società dei consumi. Infatti il marketing, i collaudati strumenti della pubblicità e della gestione dell’immagine, il culto della marca sono stati molto utili per le imprese. Forte di questi successi la comunicazione, ora esaltata, ora condannata senza appello, ha avuto la tentazione egemonica di dettare le modalità di espressione alle Istituzioni pubbliche, ai media e alla politica. Tuttavia le buone intenzioni di utilizzare la comunicazione per finalità sociali o per lo sviluppo sostenibile, sono svanite. I grandi gruppi hanno privilegiato i messaggi rivolti ai loro azionisti e incoraggiato le operazioni speculative. Le derive finanziarie, infine, hanno incrinato l’immagine degli istituti bancari e delle imprese.
Il registro della propaganda è diventato moneta corrente e si è finito con l’accontentarsi di facili proclami, di effetti annuncio invece di azioni.
Il paradigma della concorrenza che ha guidato finora la comunicazione ha prodotto molti effetti perversi. L’attualità fa premio. L’urgenza dell’evento prevale sulla riflessione a lungo termine. Si trascura l’investimento, puntando più sulla vetrina che sul laboratorio, più sull’aspetto commerciale che sulla R&S. Si mira a valorizzare la catena “ricercatore-ingegnere-produttore-finanziatore-venditore-speculatore”, muovendo a ritroso, cioè dallo speculatore. Assistiamo così al paradosso di una comunicazione che nega il valore del tempo! Trascura la relazione e dimentica l’interlocutore.
Nei periodi di crisi, il semplicismo e gli abusi della “com” sono intollerabili. Oggi la comunicazione è chiamata a render conto del suo ruolo, dell’utilità dei suoi costi, dei suoi atteggiamenti collettivi, educativi, creativi, interattivi…. Le modalità di comunicazione, di fatto poco diversificate, non rispondono più ai differenti obiettivi che perseguono le imprese, le Istituzioni pubbliche, le associazioni, le ONG, le aggregazioni della società civile, la classe politica e anche i giornalisti e gli editori dei media.
I giornalisti e alcuni intellettuali che puntano sulle virtù dell’Informazione, con la I maiuscola, per contrastare il dominio di una logica esclusivamente promozionale, denunciano la strumentalizzazione dei media, le manipolazioni, e scelgono le loro fonti – protette dal segreto – per fare del giornalismo investigativo. Tutto ciò è un bene per la democrazia.
La Società dell’informazione, nata nell’ambito del giornalismo, mirava a ridurre le pressioni eccessive della società dei consumi. Questi nuovi orientamenti della comunicazione si sono imposti grazie al digitale, con l’informatica e gli sviluppi del web, consentendo un grande accesso all’informazione e al sapere, ma senza offrire garanzie sufficienti sui contenuti.
Si apre così il regno delle reti, dopo lunghi secoli di informazioni calate dall’alto e verità ufficiali. L’interattività e la possibilità data a ciascuno di far sentire la propria voce, consentono di opporsi al non-senso tipico di una comunicazione univoca, verticale e compiacente.
Queste promesse, però, ben presto svaniscono, mentre permangono e si rafforzano le strategie per sedurre il cliente con le sirene della spettacolarità o dello scoop, spesso privo di un valore professionale aggiunto, ed anche con il trucco del gratuito, ultimo stadio della mercificazione dell’informazione.
Oggi, alcune modalità di utilizzo delle reti fanno temere che la condivisione e lo scambio di informazioni tra i navigatori, invece di produrre un reciproco arricchimento, si traduca nella diffusione di comportamenti pirateschi, settari o violenti.
Il mondo dei media è sconvolto dal pullulare delle fonti e da una concorrenza selvaggia per inseguire l’attualità. Le esigenze della selezione e del controllo dei dati, la responsabilità del contesto editoriale e della conservazione della memoria collettiva, sollecitano i professionisti a impegnarsi in una vera società della comunicazione. Essa si definisce nello spazio pubblico, ma i suoi principi sono ancora in gestazione.
In effetti un’Istituzione pubblica ha il dovere costituzionale di comunicare perché è un diritto dei cittadini ottenere le informazioni dall’Ente pubblico e diffonderle. Ma questo non è sufficiente: la comunicazione pubblica deve essere anche discussione, consultazione, concertazione e dibattito. Il dibattito, che prevede il contradditorio, è il modo migliore per riuscire a definire – umanamente – delle verità, trovando, oltre le passioni, dei compromessi sociali attraverso la razionalità di un linguaggio comune.
Ispirandosi alla comunicazione commerciale gli attori pubblici sono scesi dal loro piedistallo e hanno imparato a parlare alla gente. Di fronte alle difficoltà di trovare un’espressione della sovranità popolare, il modello del cliente-Re, proprio della società dei consumi, ha ben presto rivelato i suoi limiti.
Un sondaggio CSA realizzato per Communication Publique alla fine del 2009 rivela che i francesi "vorrebbero che i servizi pubblici li considerassero prima di tutto dei cittadini (47%) – perché elettori e contribuenti – piuttosto che come utenti (33%) senza poter scegliere tra diverse offerte – oppure sedotti come clienti (17%) da conquistare una volta per sempre.
Le nostre società sono complesse, le competenze incerte, le prospettive aleatorie. Le tensioni economiche e sociali, le minacce di crisi umanitarie, fanno moltiplicare le richieste di informazioni sempre più approfondite e le attese di spiegazione delle decisioni che vengono prese dai pubblici poteri.
La comunicazione ridotta a promozione pubblicitaria si basa sull’ipotesi, sempre meno accettata dal popolo, che i suoi rappresentanti e governanti sappiano sempre agire in modo efficace, come una sorta di Superman. Il modello che si traduce nello slogan “lavoriamo per voi” non ispira più fiducia, anzi è diventato ansiogeno.
L’inquietudine fa sorgere il bisogno di essere presi in considerazione, perfino di partecipare, in ogni caso il desiderio di essere in qualche modo coinvolti. La politica, se comunica con i cittadini utilizzando le modalità dell’enfasi, dell’imposizione o della mistificazione, perde ogni credibilità.
Ma è ancora necessario riscoprire il compito prioritario di una vera comunicazione che consiste nello stabilire la relazione senza la quale non può passare nessun messaggio? Comunicare la fiducia significa prevenire, significa informare e fare partecipare e, nel contempo, fornire certezze, far condividere valori e obiettivi, adoperarsi con chiarezza ad eliminare ogni dubbio, associando i cittadini interessati alla ricerca dell’informazione.
Quando esiste la minaccia di un’epidemia e si vuole che una collettività adotti il principio di prevenzione, non si deve nascondere l’esistenza di pareri diversi tra gli esperti, perché, al di là delle disposizioni urgenti e provvisorie, è essenziale garantire da parte di tutti gli attori coinvolti la qualità della relazione con i cittadini. Questi relais dell’opinione pubblica, chiamati poi a valutare i nuovi dati, possono recare un valido contributo perché siano attuate rapidamente le decisioni prese dalle autorità responsabili.
Governare non significa inseguire i sondaggi, ma riconoscere che l’offerta politica non è un prodotto finito che si può presentare su un catalogo ai cittadini come se fossero dei consumatori.
Considerare il cittadino solo un ricettore passivo della comunicazione significa mentirgli sulla natura dell’offerta politica e sulle competenze dei poteri pubblici.
Quasi certamente il mondo politico è quello che meno comprende il ruolo della comunicazione, considerandola essenzialmente uno strumento per la conquista del potere, mentre l’azione pubblica esige la comunicazione. L’esercizio del potere contempla, sempre, l’informazione, il dialogo, la dimensione pedagogica e la discussione. La forza di convinzione si sviluppa molto meglio attraverso lo scambio piuttosto che con una campagna promozionale.
Vanno compiuti grandi sforzi per realizzare una comunicazione autentica che riconosca l’altro, ascolti il ricettore e rispetti il cittadino nel dibattito pubblico. In una democrazia la natura della comunicazione condiziona la qualità della rappresentanza politica.
Una nuova società della comunicazione potrebbe così raccogliere la temibile sfida di integrare l’etica dell’individuo pienamente libero di esprimersi, con un’etica dell’espressione collettiva della società.
Di fronte a terrorismi, nichilismi, egoismi, pessimismi di ogni sorta, una via d’uscita per le democrazie è coinvolgere meglio i cittadini nelle scelte e nelle decisioni.
(*) consigliere di Stato di Francia, presidente della FEACP (Federazione Europea delle Associazioni di Comunicazione Pubblica) e del ‘Cercle des 5 communications’ , già presidente della ‘Commission Nationale du Débat Public’.
Tratto dalla newsletter di Comunicatori & Comunicazione