La “marca Italia” affonda. E’ un paese che non sa investire su se stesso
08/07/2008
"L’ incapacità di mettere assieme competenze e risorse porta solo perdita di competitività". Le riflessioni di G. Fabris sull'attuale situazione del nostro Paese.
di Giampaolo Fabris
Marca Italia. Se ne fa un gran parlare. Temo però che, nello sviluppo del discorso, stia perdendo quel significato provocatorio e distintivo che, inizialmente, intendevamo attribuirgli. Ed a cui hanno lavorato team di specialisti di diversa provenienza (ad Arbereta dapprima, poi con Aspen a Siracusa, a Villa Sandi e, fra breve, a Palermo) sottolineando che l’impiego del termine marca non significa certo indulgere alla moda imperante di brandizzare tutto. Bensì gestire l’immagine del Paese con la stessa determinazione, coerenza, disegno strategico che caratterizza una grande marca. Che contrasta con il dilettantismo e l’improvvisazione con cui l’immagine del nostro Paese viene confusamente proposta nel grande villaggio globale. Per di più nella convinzione di godere di una consolidata rendita di posizione.
A fronte invece, come le indagini puntualmente ci segnalano, di una preoccupante perdita di competitività e di reputazione del sistema Paese. Reputazione che non serve soltanto a favorire l’affermazione dei prodotti italiani ma a valorizzarne il grande patrimonio artistico culturale, i centri di eccellenza, a venirvi come turisti o ad abitare, a studiare, ad imparare la lingua.
Ebbene temo che branding, nell‘uso che va diffondendosi riferito al Paese, rischi di far rima con shopping. Che della marca cioè si colgano gli aspetti più superficiali, al limite del caricaturale. Per cui ciò che serve al brand Italia sarebbe un marchio, un pay off, una buona campagna pubblicitaria, qualche evento di alto livello. Elementi cioè certamente utili ma fortemente riduttivi nei confronti della complessità del problema.
Per promuovere l’identità del Paese occorre anzitutto partire dal presupposto obbligato di cosa si deve comunicare. Un’operazione davvero complessa tante sono le possibili dimensioni ma assolutamente irrinunciabile. Basti riflettere sulla ricchezza di queste (l’arte, la cultura il paesaggio, le memorie del passato, il clima, la qualità della vita, la bellezza dei nostri centri storici, l’enogastronomia, la moda, il design solo per una veloce carrellata) per comprendere quanto sia difficile, ma indispensabile, disporre di uno spartito comune.
Pensare di delegarlo a dei comunicatori, con tutto il rispetto per la categoria, è un atto di preoccupante miopia.
In parallelo occorre creare una cabina di regia di elevato spessore culturale e con delle competenze di marketing che riesca a coordinare effettivamente la miriade di iniziative, che si risolvono oggi in un drammatico sperpero di risorse, portate avanti da una molteplicità di soggetti. Iniziative scoordinate, sovente contraddittorie, incapaci di fare massa critica indispensabile per conseguire un minimo di “tone of voice” in contesti tanto competitivi.
Occorre innanzitutto coordinare, nei limiti del possibile, l’attività dei tre principali soggetti – l’Enit, l’Ice, il ministero degli Esteri anche con gli Istituti italiani di cultura – più attivi a livello internazionale. Occorre inoltre – è una precondizione per affermare la marca Italia – limitare l’autonomia delle Regioni che rivendicano una discrezionalità praticamente assoluta in termini di comunicazione con iniziative asfittiche volate a generare entro- pia più che costituire sistema.
La marca Italia affonda: non è soltanto per il clamore mediatico conseguente all‘emergenza rifiuti. E’ soprattutto per la continua perdita di competitività : paradossale considerando gli straordinari patrimoni di cui il Paese dispone che lo candidano ad una indiscussa eccellenza e che, se non valorizzati, si esauriscono a un livello meramente virtuale. Perdita di competitività significa appunto meno turismo, meno investimenti nel Paese, minore attrazione dei prodotti italiani.
Colpisce davvero questa clamorosa latitanza dell’italia a fronte di strategie di marketing e di comunicazione espresse da altri Paesi, anche molto piccoli, che hanno prodotto straordinari risultati. Credo che, da noi, nemmeno se ne abbia contezza. E continuiamo così a cullarci tra acritiche incensazioni del made in Italy e la vocazione al lamento, il vero sport nazionale. E la forte tentazione – forse ancora più preoccupante di conseguire dei risultati con un superficiale trattamento cosmetico: un portale, un po’ di buona pubblicità, qualche evento.
tratto da la Repubblica – Affari&Finanza – 7 luglio 2008