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L'azienda é un medium

21/12/2010

“I comunicatori d’impresa sono una famiglia professionale che dialoga con pubblici sia esterni che interni”, dice Toni Muzi Falconi, in un’esclusiva intervista sul nuovo numero di _Prima Comunicazione._ “Il tema della comunicazione è diventato talmente pervasivo e trasversale che anche il singolo capo squadra di stabilimento deve sapere di comunicazione”. Una panoramica sul futuro della comunicazione nel nostro paese.

di Daniele Scalise
Assistere ai fenomeni non vuol dire capirli e la trasformazione epocale del mondo della comunicazione ne è un esempio classico. Le agenzie di pubblicità che fino a qualche anno fa avevano in mano la strategia di comunicazione delle aziende hanno visto ridimensionare il proprio ruolo a fornitori di commodities; l’entrata in scena della Rete ha sconvolto le relazioni e i rapporti di potere all’interno e fuori dalle aziende trovando spesso risposte inadeguate o banali. Tra le persone nel nostro Paese meglio attrezzate a farci capire cosa sta succedendo in quell’universo sicuramente c’è Toni Muzi Falconi – che nel 2011 festeggerà 50 anni di lavoro nel mondo della comunicazione – dopo esperienze aziendali in Stanic, 3M Italia e Fabbri Editori, tra i fondatori di Scr nel 1976, di Methodos nel 1989 e di Intermatrix nel 2001.
Ex presidente della Ferpi, di cui è attualmente responsabile dei rapporti internazionali, e della Global Alliance, organizzazione ombrello che comprende 68 associazioni professionali di altrettanti Paesi nel mondo, per la quale coordina oggi gli Accordi di Stoccolma, un programma globale di due anni di relazioni pubbliche per le relazioni pubbliche.
Docente di relazioni globali e comunicazione interculturale alla Nvu di New York, di relazioni pubbliche alla Lumsa di Roma, di relazioni con i pubblici alla Sapienza di Roma, e di public affairs al master di government della Luiss. Insomma, uno che conosce direttamente il mondo delle aziende oltre a ragionare e a discutere su temi della professione a livello internazionale.
“Recentemente in un convegno organizzato dalla Ferpi a Milano”, ci dice Muzi Falconi, "è emerso un dato piuttosto significativo: nelle prime cento aziende italiane i direttori della comunicazione rispondono direttamente all’amministratore delegato, al ceo. Quattro anni fa succedeva in sessanta aziende. Quindici anni fa, in trenta. La comunicazione d’impresa e le relazioni pubbliche assumono sempre più importanza e sono sempre più centrali nella vita aziendale e non solo.
Insomma, la comunicazione aziendale cambia pelle e sistema nervoso. Ma è vero che l’azienda è diventata un medium?
In effetti l’organizzazione aziendale è un editore nel senso ampio del termine. I comunicatori d’impresa sono una famiglia professionale che dialoga con i pubblici sia esterni che interni. Lei pensi alla web tv di un’azienda che è poi una televisione a tutti gli effetti; al servizio relazioni con i media, alle relazioni istituzionali, internazionali, alla comunicazione di marketing e a quella interna… Solo questi, senza contare i collaboratori esterni, i consulenti e le agenzie di supporto, hanno le dimensioni e le competenze di un editore medio grande.
Segno, mi viene da dire, non solo di un potenziamento ma anche di un mutamento di ruolo della comunicazione.
I consumatori sono sempre stati l’obiettivo principale per la comunicazione d’impresa. Ora lo stanno diventando anche gli azionisti, gli investitori, i fornitori, i dipendenti, i decisori pubblici, le comunità locali, le organizzazioni di cittadinanza attiva… Per esempio: un tempo ai fornitori era espressamente vietato di parlare tra di loro, oggi sono sollecitati e incentivati a farlo e l’impresa è lì per dirigere il traffico, governare la conversazione, eccetera.
Mi pare chiaro che l’arrivo della Rete abbia mutato i rapporti e le strategie.
Il digitale ha fatto sì che il prodotto venga sovente cambiato e migliorato con la collaborazione diretta e attiva dei clienti e degli utenti. Anche i dipendenti sono oggi assai più credibili all’esterno di quanto non lo siano i dirigenti e i portavoce dell’azienda, per cui anche la distinzione interno/esterno è saltata. L’azienda è bifronte come il dio Giano. Da una parte c’è la faccia materiale, hard, e dall’altra quella narrativa, soft. L’azienda comunicativa integra tutto questo e diventa ‘smart’.
Cosa intende per faccia narrativa?
Prenda questioni come la sicurezza sul lavoro, la qualità dell’ambiente, il bilancio, il patrimonio, eccetera. Su questi argomenti esistono normative, regole, consuetudini – per altro in continuo cambiamento e spesso diverse da Paese a Paese – che impongono all’azienda di rendicontare quel che fa. C’è anche quella che possiamo definire la ‘narrazione volontaria’, e cioè la comunicazione di marketing che nessuno ti obbliga a fare ma di cui, se vuoi davvero vendere i tuoi prodotti, non puoi fare a meno, e poi quella ai dipendenti, ai decisori pubblici, ai fornitori, eccetera.
Se ben capisco, oggi un’azienda non ha più solo il compito produttivo ma anche quello di raccontare in modo credibile e affidabile. Diciamo che la reputazione di un’azienda è ormai indispensabile nella composizione del valore di ciò che produce, come del resto ci hanno spiegato sul numero di novembre di Prima il direttore di Repubblica Ezio Mauro e la ceo della New York Times Company, Janet L. Robinson.
A me, più che di reputazione, piace parlare di ‘licenza d’operare’. II primo termine viene sempre associato a management (ma come si può gestire una reputazione? La reputazione è quello che gli altri dicono di te, ingestibile per definizione). Licenza di operare invece suggerisce che sono gli altri a concedertela e diventa la finalità ultima della tua narrazione permanente, continua, multicanale e differenziata per pubblico specifico. Del resto i direttori della comunicazione importanti in Italia ne sono perfettamente consapevoli. Come ne sono consapevoli anche gli istituti di formazione. L’università di Pavia ad esempio ha costituito un’associazione di esperti di storytelling d’impresa.
Lo considera un fenomeno sovranazionale?
Certo che sì. A luglio si è costituito su iniziativa del principe Carlo a Londra l’Iirc – International Integrated Reporting Committee – con un numero impressionante di presidenti delle associazioni internazionali che si occupano di materie contabili, ambientali e sociali di tutto il mondo e degli organi di regolazione. L’Iirc si propone di definire un sistema condiviso e integrato di rendicontazione patrimoniale, finanziaria, ambientale, sociale e di governance a livello globale.
E perché questo costituisce una tale novità?
Perché fra le tante cause della crisi finanziaria di questi anni ci sono l’incoerenza, l’opacità, la difficoltà di leggere bilanci economici del tutto scorrelati dai cosiddetti bilanci sociali o di sostenibilità. Quella licenza di operare di cui parlavo prima va a farsi benedire in assenza di una rendicontazione continua, multicanale e differenziata redatta anche in funzione delle aspettative dei diversi stakeholder. Un altro esempio: gli analisti finanziari non hanno ancora condiviso un metodo per calcolare in bilancio il valore degli intangibili. Ognuno fa per sé. L’Iirc – di cui faccio parte in rappresentanza di un gruppo di lavoro italiano in materia appena costituito dall’Oscar di bilancio e al quale partecipano analisti, revisori, auditor, direttori finanziari, esperti di csr, relatori pubblici e altri – intende porre riparo a tutto questo e sviluppare una piattaforma comune che da un lato presenti linee guida globali e dall’altro tenga conto delle specificità regionali e dei singoli mercati finanziari.
Fino a oggi che succedeva?
Fino a oggi le funzioni aziendali che lavorano sul bilancio intangibile, ad esempio sul valore di una marca, erano la finanza e il marketing. Ma soltanto qualche settimana fa l’Iso ha approvato uno standard internazionale che ti obbliga ad ascoltare non solo i consumatori, ma anche tutti quei pubblici su cui un’azienda produce conseguenze o che producono conseguenze su di essa. Questo significa coinvolgere i relatori pubblici per le relazioni con gli stakeholder e dare una nuova missione al marketing.
Non c’è il rischio di burocratizzare tutto?
Sì. L’unica salvaguardia è che ormai il tema della comunicazione è diventato talmente pervasivo e trasversale in una organizzazione che anche il singolo capo squadra di stabilimento per far lavorare i suoi con maggiore efficienza deve sapere di comunicazione. Il direttore della comunicazione quindi ridimensionerà le sue truppe ma aumenterà la sua influenza strategica nell’assicurare che tutta l’organizzazione abbia assorbito competenze comunicative e relazionali in una cornice di coerenza complessiva.
E a cosa serve invece l’Iso 26000, il nuovo standard sulla responsabilità sociale lanciato il 1 novembre?
Il nuovo standard è di grande importanza perché fornisce una guida per tutti i tipi di organizzazione su cosa significhi veramente la responsabilità sociale e quali siano le questioni fondamentali da affrontare per la sua attuazione. E chiarisce anche come le prestazioni di un’organizzazione in relazione alla responsabilità sociale possano influenzare il vantaggio competitivo, la reputazione, i rapporti con le istituzioni, i media, i lavoratori e i clienti, la percezione degli sponsor e della comunità finanziaria, insomma tutti gli stakeholder coinvolti. Iso 26000 è il risultato di un vasto gruppo di lavoro all’opera dal 2005, il più ampio per la tipologia degli stakeholder rappresentati tra tutti i gruppi formati per sviluppare uno standard Iso.
Insomma tutto è diventato comunicazione, mentre quello che conoscevamo fino a ieri era in larga parte solo informazione.
Ciò che è cambiato in quella che si chiama ‘società di rete’ (network society) è che non è più efficace per una organizzazione l’informazione unidirezionale, perché tutto è interrelato e lo scambio è continuo. La comunicazione (nel senso di con) diventa lo strumento e il canale delle relazioni con gli stakeholder. La definizione delle politiche di relazione con gli stakeholder diviene il ruolo principale degli organismi di governance dell’impresa (consigli di amministrazione).
E immagino che ascoltare non sia solo tenere le orecchie aperte.
Ascoltare non può limitarsi a uno slogan oppure a commissionare delle ricerche economiche o sociali. Ascoltare significa stabilire una relazione vera. E credo che l’ascolto degli stakeholder sia oggi la parte più importante del processo comunicativo di un’azienda o istituzione. Con i miei colleghi in giro per il mondo ci sforziamo di convincere le università a istituire in tutti i corsi di laurea di comunicazione una materia che tratti appunto l’ascolto, proprio perché non può esservi comunicazione senza ascolto.
In una società di narcisi dove ognuno guarda, parla e ascolta solo se stesso sarebbe da imporre fin dalle elementari. Ma mi spieghi meglio il concetto di ascolto e che rilevanza ha con la comunicazione aziendale.
L’ho imparato molti anni fa dal filosofo Pier Aldo Rovatti, il quale mi ha interpretato il lavoro di Franco Basaglia. La prima fase dell’ascolto sta nella raccolta delle evidenze ‘uscendo da sé’, senza farsi condizionare dalla propria conoscenza, dai propri pregiudizi e dalle proprie opinioni. A quel punto devi avere la capacità, restando ’fuori di te’, di metterti al posto del tuo paziente e valutare se quello che hai raccolto è sufficiente. Solo dopo, alla terza fase, rientri in te stesso e passi alla diagnosi e ti puoi permettere di ipotizzare una prognosi. Ed è a quel punto che come azienda decidi la tua strategia, i tuoi obiettivi.
Non vorrei sembrarle brutale, ma l’azienda cosa ci guadagna?
Se tu prendi una decisione tenendo in considerazione le aspettative degli stakeholder, ma senza farti ‘tappetino rosso’ e mantenendo ferma la tua identità, raggiungi almeno due obiettivi. Prima di tutto migliori la qualità della decisione, come del resto spiega James Surowiecki in un bellissimo testo uscito nel 2004, ‘The Wisdom of Crowds’, (‘La saggezza della folla’ è l’edizione italiana edita da Fusi Orari: ndr). Il secondo punto a favore riguarda il tempo di attuazione che, nella situazione sociale e politica dell’Occidente, è diventato una importantissima variabile qualitativa di una decisione. Se conosco le aspettative dei miei stakeholder sono preparato ad affrontare i loro comportamenti ed esco quindi dalla neurosi manageriale di questi ultimi vent’anni rappresentata dalla crisi continua e dall’emergenza. Insomma, banalizzando, sono in grado di sapere quali rischi possiamo correre e da parte di chi. Per questo l’ascolto prima di prendere una decisione aiuta molto l’azienda. Del resto è in questa direzione che si stanno muovendo tutte le business school del mondo.
In Italia a che punto siamo?
I relatori pubblici, come altri professionisti e non ultimi i giornalisti, devono reinventarsi il mestiere, perché ad esempio con Internet vengono scavalcati facilmente. Un giornalista che si occupi in modo continuativo di Microsoft, se vuole comunicare con Bill Gates mica passa attraverso il capo della comunicazione di quell’azienda, ma apre il computer e manda direttamente una e-mail al signor Gates. Oppure se vuole parlare con Scaroni o Conti recupera il loro cellulare. Tra l’altro, la linea narrativa di un’azienda offre uno spazio notevole ai giornalisti che magari non trovano spazio all’interno della vecchia e sola informazione.
Scenari che sembrano lunari e che invece sono dietro l’angolo.
Un tempo a un direttore della comunicazione non si chiedeva di produrre utili. Oggi, che si può valutare tutto e quindi anche l’intangibile, chi fa comunicazione dispone di un budget ma deve anche poter dimostrare di aver prodotto utili. In questa visione ha la stessa responsabilità del direttore commerciale.
In tutto questo come si colloca la ricerca sugli investimenti in comunicazione ‘Beyond the line’, cioè sulla comunicazione che non è pubblicità, promossa dalla Ferpi e realizzata grazie al contributo della Fondazione Coca-Cola Hbc Italia, che pubblichiamo su Uomini Comunicazione e su Primaonline.it ?
È la prima volta che in Italia si fa un’indagine sugli investimenti in comunicazione introducendo il concetto di beyond the line, che comprende cioè tutto ciò che va ‘oltre’ la pubblicità. L’idea è di Alessandro Magnoni, direttore comunicazione e relazioni esterne di Coca-Cola Hbc, che all’interno della Ferpi è responsabile dei rapporti con le altre organizzazioni professionali della comunicazione d’impresa e della pubblicità. La ricerca – realizzata da Massimo Caroli della Luiss e Carlo Alberto Pratesi, due docenti esperti di organizzazione e di marketing e comunicazione aziendale – ha coinvolto tutte le aree aziendali in rapporto con gli stakeholder. Dai classici settori delle media relation, delle relazioni pubbliche e del marketing, a quelli del Crm (Customer relationship management), delle vendite, delle investor relation e della comunicazione finanziaria, della comunicazione istituzionale, fino alla comunicazione interna e a quella con i fornitori. Il risultato è che ci offre molti dati per capire dove sta andando il mercato.
E dove sta andando il mercato?
Le risposte delle agenzie di comunicazione e delle imprese ci dicono che nelle piccole aziende, ma anche in quelle medie e in quelle grandi, la comunicazione non pubblicitaria è in forte espansione. E che c’è una crescente attenzione all’utilizzo della Rete e dei social network.
Il mondo delle relazioni pubbliche e della comunicazione nostrano ha competenze adeguate a questo nuovo complesso sistema di comunicazione?
No. Se i relatori pubblici vorranno tenere il pallino nelle loro mani dovranno impegnarsi, studiare, seguire senza timidezze e pigrizie l’evoluzione di un mondo sempre più complesso.
Un problema anche per il sistema di formazione professionale delle università e delle associazioni tipo la Ferpi e Assorel.
Non un è problema, ma una grande occasione per allargare le attività delle università e per potenziare il ruolo delle associazioni che dovrebbero cogliere l’occasione per rivendicare con ancora più forza la licenza di operare della nostra stessa professione.
Tratto da Prima Comunicazione
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