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Le lobby? Così chiuse da discriminare i soci

30/07/2009

L’associazionismo è una libertà fondamentale per i singoli e una risorsa per tutta la società. Ma spesso alcuni corpi associativi virano in lobby in cui la lealtà di gruppo prevale sull'interesse generale. Servono nuove regole, la prima da rispettare è la trasparenza.

di Michele Ainis


L’associazionismo è una risorsa, per i singoli e per la società nel suo complesso. E anche una libertà fondamentale, protetta dalla costituzione italiana del 1948 non meno che dalla carta dei diritti dell’unione europea del 2000. Ma alle nostre latitudini ha via via contratto un’infezione che trasforma le associazioni in altrettanti corpi separati, impermeabili allo stato di diritto. E tali corpi associativi (86mila, secondo il rapporto di Cittadinanzattiva e Fondaca, presentato nel 2008) spesso virano in lobby, dove la lealtà di gruppo prevale sull’interesse generale.


Sicché ormai è quasi impossibile ottenere un posto pubblico o privato, una promozione, una medaglia al merito se non fai parte della corata giusta. Lasciando a mani nude il non socio, il non iscritto. Frustrando la libertà di non associarsi, che oltretutto viene quotidianamente contraddetta dalla pioggia di provvedimenti legislativi di favore verso questa o quella associazione.
In conclusione, mettendo un bavaglio a chiunque canti fuori dal coro, dal magistrato che non milita in alcuna corrente giudiziaria all’operaio non sindacalizzato.


Questo strapotere dei gruppi a danno dei singoli individui rinvigorisce a sua volta la vecchia avversione dello stato liberale per i legami associativi, ne rispolvera tutte le ragioni. Non si tratta, ovviamente, di vietare le corporazioni, come fece il 14 giugno 1791 la legge Le Chapelier. Basterebbe vietare soprusi e prepotenze.


Un solo esempio, fra i molti che potrebbero elencarsi. Vale il principio di non discriminazione all’interno dei gruppi associativi? Dovrebbe. Eppure abbiamo atteso il 1989 prima che una donna fosse accolta come socia di un Rotary Club. Un beneficio tuttora negato all’interno della massoneria così come nello storico Circolo dell’unione, a Milano. Tanto che nel 1999 il senatore Russo Spena presentò un’interrogazione, chiedendo conto del medesimo divieto applicato al Circolo canottieri Aniene di Roma: il ministro di turno (Laura Balbo) gli rispose picche.


Serve insomma la corazza del diritto per proteggere i soldati semplici di queste armate associative, quantomeno in rapporto ai procedimenti di ammissione o di esclusione dei soci; ma la strada è impervia, anche perché in giurisprudenza la libertà della associazione per lo più prevale sulla libertà nella associazione, sulla tutela dei singoli associati. Si dirà che a casa propria ciascuno fa come gli pare. Vero, tuttavia c’è pur sempre un regolamento di condominio per gli affari comuni. E allora applichiamolo pure alle associazioni, demolendo il potere di veto dei gruppi dirigenti. Lo statuto ne stabilisca i fini, e stabilisca inoltre i requisiti per venire ammessi; se ne sei in possesso entri, anche se la tua faccia non piace ai vecchi soci. Così, riusciremo forse a immettervi una ventata di aria fresca, e comunque riusciremo a rompere dighe e steccati fra le associazioni e il mondo esterno.


È nel buio di distanze troppo sigillate, troppo nascoste agli sguardi altrui, che si consumano gli illeciti peggiori. La prima regola da mettere nero su bianco si chiama trasparenza. Nel 1925 una legge (la 2029) prescrisse un obbligo di pubblicità per ogni associazione, imponendo di comunicare l’elenco nominativo dei soci e delle cariche sociali all’autorità di polizia. Era una legge fascista, che non rappresenta certo un modello da emulare. Ma possiamo girare l’informazione verso la società civile, anziché verso l’apparato autoritario. Possiamo mettere sul web gli iscritti a ogni associazione, come ha fatto il ministro Brunetta, nel giugno2008, per i consulenti delle amministrazioni pubbliche. Dopotutto si tratterebbe di restituire fiato e gambe a un principio costituzionale, quello che vieta le associazioni segrete.


Nel 1982 la legge Anselmi, sciogliendo la Loggia P2, ne fece una prima applicazione. Ma non basta, l’esperienza sta lì a dimostrarlo. Anche perché rendendo noti al pubblico i compagni di cordata si possono finalmente sparigliare le cordate. Magari aggiungendoci qualche proibizione, se è utile alla causa. Quale? Eccone un esempio: l’articolo 51 del codice di procedura civile stabilisce l’incompatibilità del giudice, quando lui stesso o il coniuge sia parente fino al quarto grado con una delle parti sottoposte al suo verdetto. La medesima incompatibilità fra commissari e candidati vale nei concorsi pubblici.


E perché mai non puoi giudicare un tuo lontano cugino, mentre puoi farlo con il socio che vedi tutti i giorni, con cui ti scambi strizzatine d’occhio dietro il vetro degli occhiali? Perché mai puoi nominarlo direttore, affidargli appalti, appuntargli sul petto un distintivo? Estendiamo l’incompatibilità pure a queste situazioni, e non pensiamoci più sopra.


tratto da Il Sole 24 Ore del 29 luglio 2009
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