Lobby? Sì, grazie
07/03/2013
L'informazione spesso ci riporta un'immagine del lobbying ambigua, spesso relegato a un fatto di costume, quasi sempre nella sua accezione più negativa. Ma chi sono davvero i lobbisti? Com'è cambiata la professione negli ultimi decenni? Ma soprattutto: più lobby è meglio? _Lisa Scudeler_ ne ha parlato con _Fabio Bistoncini,_ fondatore e AD di _FB & Associati._
di Lisa Scudeler
Alla luce dello scenario attuale, che per molti aspetti ricorda purtroppo quello di ben altre stagioni, com’è cambiata l’attività di lobbying negli ultimi 20 anni?
È diventata sempre più professionale, effetto indotto da quei tanti cambiamenti che hanno attraversato il nostro sistema politico e istituzionale. Negli anni abbiamo, ad esempio, assistito a nuovi mercati che si aprivano e quindi alla richiesta di nuove competenze: se pensiamo al settore dell’energia fino a poco tempo fa non vi erano una pluralità di soggetti economici che competevano fra di loro. Non solo ma nell’arena decisionale sono entrati nuovi interessi organizzati (associazioni ambientaliste, ONG, associazioni a tutela dei consumatori, gruppi di cittadini, ecc. ecc.) che chiedono ascolto e interagiscono con il decisore pubblico in modo più efficace rispetto al passato e che sono alla ricerca o si sono già dotati di professionisti nel settore delle relazioni istituzionali. Tutto ciò determina la necessità di avere sempre più competenze di lobby.
L’etica, spina del fianco di un settore guardato ancora con sospetto da buona parte dell’opinione pubblica, quanto conta? Si può parlare di responsabilità sociale per un lobbista?
Io parlerei prima di tutto di responsabilità sociale dell’interesse di cui il lobbista è portatore perché il lobbista, non lo dimentichiamo, è un tecnico. Da questo punto di vista qualsiasi interesse che abbia legittimazione sociale è di per se ‘giusto’ ed è quindi possibile e auspicabile che abbia una tutela a partire proprio dal professionista che ne è portatore. Se etica del lobbista poi significa rispettare determinate regole, ovviamente quelle ci sono, esiste un codice etico, ad esempio per chi come me fa parte della Ferpi. Ci sono poi anche altre associazioni sia a livello nazionale che internazionale, anch’esse dotate di codici etici e di condotta che ciascun membro è poi chiamato a rispettare.
«I lobbisti sono quelle persone che per farmi comprendere un problema impiegano 10 minuti» diceva John Kennedy. Quanto conta il lavoro di ‘semplificazione’ di un lobbista, in un mondo in cui la risorsa più scarsa è il tempo, cosa che per il lobbista spesso si traduce nella capacità di dare risposte ‘in emergenza’? Un lobbista può essere definito agevolatore di scenari complessi?
Certamente. Una delle caratteristiche di un lobbista è ormai diventata quella di essere in grado di semplificare. In un contesto politico-istituzionale che diventa sempre più complesso, anche qualsiasi decisione pubblica lo diventa e quindi, per orientarsi bene, è necessario semplificare, fornire delle chiavi di lettura utili agli interessi organizzati che si rappresenta.
Perché le organizzazioni dovrebbero avvalersi di attività di lobbying continuata e pianificata?
Perché sempre più le regole del mercato possono essere un ostacolo o un agevolatore del successo di un’azienda: l’importanza del lobbista è evidente perché incide direttamente proprio su quelle regole. Avere un lobbista è la garanzia di poter modificare o rafforzare una determinata regolamentazione per permettere all’organizzazione complessa di raggiungere i suoi obiettivi, che è il vero fine dell’attività di lobbying. Ci sono organizzazioni a cui il lobbying fa meglio di altre? Penso che dovrebbero farla tutti: più interessi sono presenti all’interno della dinamica politica-sociale, meglio è per la democrazia.
Ruolo e cultura della lobby in Italia, quali gli scenari futuri?
Da un lato una delle cartine tornasole sarà l’eventuale riconoscimento dell’attività di lobby nel nostro Paese, riconoscimento che esiste di fatto ma non di diritto. Ormai come lobbisti siamo accettati all’interno del panorama politico-istituzionale, quello che manca è una disciplina che inquadri da un punto di vista formale la nostra attività e la nostra figura. Il futuro dovrà essere questo, almeno l’auspicio è che possa essere questo, sapendo benissimo che ciò non esaurisce la nostra funzione. La vera selezione non la fa un albo ma la fa il mercato. La selezione tra il lobbista buono e il lobbista cattivo non la fa un registro: esso serve a far emergere tutti gli interessi e per questo deve essere obbligatorio e non facoltativo com’è oggi in UE. Obbligatorio perché deve servire a fare emergere tutti gli interessi presenti all’interno della società e tutti i lobbisti che di quegli interessi sono portatori.
Nel giugno 2011, il Parlamento europeo e la Commissione europea hanno varato un registro comune per la trasparenza. Diana Wallis, allora vicepresidente del Parlamento europeo, commentava: "Ritengo si sia finalmente raggiunto un obiettivo che il nostro gruppo di lavoro si era posto diversi anni fa […] grazie al registro dei rappresentanti di interessi, comune per la Commissione e il Parlamento, spero che contribuiremo all’affermarsi di una più solida cultura della trasparenza a Bruxelles“, quanto siamo lontani in Italia da affermazioni simili?
In Italia siamo ancora lontani, meglio lontanissimi per molti aspetti, quello europeo però come detto, non è un registro che garantisce la trasparenza perché è un registro facoltativo, ne sia dimostrazione che molti dei miei colleghi non sono iscritti. Diana Wallis avrebbe avuto ragione se avessero approvato un registro obbligatorio. Il renderlo facoltativo è, secondo me, un po’ una foglia di fico: è importante certo perché passa il principio dell’utilità di un registro, ma francamente non lo considero esportabile così com’è. Sì, dunque, a un registro unico, obbligatorio e a livello nazionale. Unico perché è evidente che io non posso iscrivermi a un numero indecifrato di registri, ogni volta diversi, svolgendo la mia attività presso il Governo, presso il Parlamento, presso alcune istituzioni regionali e così via.
Come vedi il provvedimento del Ministero delle Politiche Agricole che prevede anche l’istituzione di un registro dei lobbisti che si relazioneranno con il dicastero?
L’iniziativa è certamente importante, se non altro perché ha il pregio di prevedere finalmente un registro trasparente al quale si può accedere, vedere chi sono i lobbisti registrati, prevedendo un incentivo alla registrazione che non è economico ovviamente. Si tratta di un incentivo informativo che consente al gruppo di interesse di ricevere, prima di altri, eventuali dossier su cui sta lavorando il Ministero. Pur avendo sempre detto di esserne a favore e che mi sarei iscritto, temo però che poi altri Ministri possano fare la stessa cosa, per arrivare infine ad avere, solo per fare attività di lobbying nei confronti di un governo, diversi registri a cui doversi iscrivere cosa che sarebbe, francamente, eccessiva.
Come guardi a iniziative regionali? Penso a Toscana (n. 5 del 2002), Molise (n. 24 del 2004) o alla stessa Regione Veneto?
Sono ‘atti nati e morti lì’. Nel caso della Regione Veneto, ci ha impiegato tre anni mi sembra solo per metterlo in discussione, già questo è sintomatico.
L’impressione è che comunque il baricentro si stia spostando a livello regionale o sbaglio?
Per ovvi motivi la legislazione si è mossa in passato più su un livello locale, mentre c’è stata un’accelerazione a livello nazionale nell’ultimo anno. Il mio auspicio è che territorialmente ci si fermi perché quello che serve in questo momento è una legge quadro o una normativa quadro a cui poi le regioni possano far riferimento. Il rischio è di avere più normative che si differenziano l’una dall’altra e dunque di avere, oltre a luoghi di iscrizione diversi, anche delle modalità di iscrizione diverse il che sarebbe, ancora una volta, un eccesso.
Assistiamo a una deriva verso un ‘federalismo di interesse’ se così possiamo definirlo?
Sì, assolutamente.
Riguardo al ruolo di una associazione come Ferpi se guardiamo al riconoscimento anche sostanziale di cui dicevamo prima…
Ferpi ha pochi lobbisti all’interno, però ce li ha. Ferpi è forse l’unica vera associazione che potrebbe e che ha fatto in passato una serie di richieste anche di un certo peso in qualità di soggetto che richiede la normativa, una normativa finalmente di settore. Il suo ruolo è quindi importante perché inserisce il lobbying in un contesto più ampio, non lo isola nonostante questo abbia effettivamente delle sue specificità oltre ai tanti punti di contatto con le relazioni pubbliche.
Internet e il web 2.0 hanno cambiato, e come, il modo di fare la professione?
Lo stanno cambiando. Non ancora in modo radicale ma attraverso gli strumenti social e del web 2.0 in generale, è più facile per gli interessi, anche i più deboli economicamente, raccogliere informazioni, aggregare gruppi di persone, svolgere una parte della nostra attività, in quanto ne riduce i costi, che prima erano appannaggio soltanto di grandi gruppi di interesse molto strutturati. Adesso è tutto molto più semplice. Questo è un bene, non un male perché moltiplica la competizione, competizione che non è più basata sulle barriere d’accesso alla professione, ma è fatta sempre più sui contenuti: vince non chi ha una rete consolidata, una capacità organizzativa maggiore di altre o più risorse economiche ma chi riesce a trasferire meglio e in modo più efficace i propri contenuti.
Quel valore aggiunto che costituisce la differenza sostanziale tra il lobbista e un faccendiere…
Esattamente.
Il digitale sta cambiando anche questo lavoro dunque. Ai più giovani che volessero avvicinarsi alla professione del lobbista, cosa ti sentiresti di consigliare? Esiste un iter accademico specifico?
Un minimo di preparazione giuridica certo è necessaria, ma io dico sempre che bisogna essere informati e avere voglia di informarsi. Quello che serve assolutamente è una lingua, l’inglese deve essere conosciuto perfettamente, quindi più di un master direi loro di puntare sulle lingue perché la competenza tecnica e la preparazione tecnica si possono acquisire anche sul campo, mentre altri tipi di competenze o di curiosità o sono innate o devono essere coltivate nel tempo.
Oltre il metodo dunque, competenze che fanno pensare quasi all’apprendista di bottega. Possiamo parlare di un ‘mestiere artigiano’?
Sì, io lo scrivo anche nel mio libro (Vent’anni da sporco lobbista, Guerini e associati, N.d.R.), secondo me lo studio del lobbista è quasi una bottega rinascimentale. Dove servono giovani, svegli, capaci, con voglia d’imparare. Le competenze ‘tecniche’ seguiranno dopo.
Il primo vero motore, come era per la bottega nel rinascimento, sembra essere quindi la curiosità, corretto?
Assolutamente così.
Visto il titolo del tuo libro Vent’anni da sporco lobbista, non potevo non chiudere questa nostra piacevole conversazione chiedendoti, chi o che cosa ‘smacchierà’ gli sporchi lobbisti?
Devo ammettere che non ho grandi aspettative o meglio, quelle che ho sono molto ragionevoli. Personalmente non ho l’ambizione di essere ‘amato’ come professionista in tutto e per tutto, so benissimo che alcuni stakeholders, anche istituzionali, e una parte dei media e dell’opinione pubblica, continueranno a guardare al mio lavoro con sospetto. Quello che farà la differenza è se il mio lavoro sarà considerato come parte integrante del sistema democratico. Allora, quando il lobbismo sarà riconosciuto, e ciò significa riconoscere che esistono i lobbisti e che hanno una funzione all’interno della partecipazione democratica e del processo di formazione di decisione pubblica, quando questo sarà, per me sarà sufficiente. Allora il giaguaro sarà smacchiato.
Quindi un riconoscimento che viene dato ma va anche cercato…
Sì, il riconoscimento deve essere cercato anche dai lobbisti oltre che dalla politica e dagli altri stakeholder perché se fino ad oggi non abbiamo avuto una normativa che riconosca i lobbisti è stato in parte per responsabilità nostra e in parte anche per responsabilità della politica.