Redazione
Il conflitto che sta infiammando l’Ucraina è il primo caso di guerra ibrida, in cui il combattimento sul terreno si svolge nel contesto di una strategia di comunicazione che travalica la semplice propaganda, diventando una forma immateriale di organizzazione diretta del conflitto armato, vera e propria logistica militare. Nella Net-war il giornalismo diventa logistica militare e il combattimento digitale trasforma la figura del giornalista.
Un soldato ucraino, da solo, in una trincea piena di commilitoni morti, circondato da miliziani filorussi, in una località imprecisata del Donbass. L’immagine, ripresa da un drone, diventa il simbolo della trasformazione in corso dei linguaggi dell’informazione: se questo soldato ha avuto una chance di sopravvivenza, probabilmente la deve a queste foto che hanno fatto il giro del mondo. Il conflitto che sta infiammando l’Ucraina, scrive Michele Mezza in questo libro denso e attualissimo, è il primo caso di guerra ibrida, in cui il combattimento sul terreno si svolge nel contesto di una strategia di comunicazione che travalica la semplice propaganda, diventando una forma immateriale di organizzazione diretta del conflitto armato, vera e propria logistica militare. In questa trasformazione gruppi privati, come quello di Elon Musk, Microsoft e Google, diventano potenze geopolitiche, offuscando ruolo e trasparenza degli Stati. Per la prima volta, le armi con cui viene condotta la guerra coincidono con le infrastrutture digitali dell’informazione: siti web, smartphone, droni, sistemi di geolocalizzazione, piattaforme social hanno costituito il principale arsenale del confronto fra invasori e invasi, permettendo ai secondi di localizzare e colpire con estrema precisione le forze nemiche, anche grazie al supporto diretto della popolazione che rimaneva connessa, persino sotto i bombardamenti. Le azioni militari vengono strategicamente studiate e messe in atto proprio pensando al loro effetto comunicativo, perché il modo in cui verranno raccontate determinerà la percezione del conflitto e, in ultima analisi, il suo esito. Se non è una novità che la comunicazione della guerra sia un terreno cruciale e delicato, oggi essa è diventata l’oggetto del contendere. La censura applicata ai media russi, dove la stessa parola «guerra» è bandita e va sostituita con l’edulcorata definizione di «operazione militare speciale», è l’esempio più lampante di un giornalismo che ha perso il suo carattere di autonomia. Ma ciò che accade in Russia, in forme diverse e meno radicali, sta avvenendo anche da noi: come nota l’autore, con la guerra in Ucraina il giornalismo diventa tutto embedded, non solo per un’integrazione di ogni mediatore con una delle due parti, quanto perché l’informazione, per i suoi strumenti e le sue tecnicalità, si confonde e si combina con la cyber security, lo scontro sulla sovranità di memorie e contenuti digitali. La manomissione dell’evidenza di immagini e news ci dice che siamo oltre il contrasto rispetto a un supposto mainstream ideologico, siamo nel pieno della guerra ibrida teorizzata proprio dalla Russia. In questo scenario, l’informazione che scorre in rete è il prolungamento del perenne conflitto che i due schieramenti animano, attaccando e inibendo le risorse del nemico. Tutto questo porta a un cambiamento epocale nel giornalismo, dove a mutare radicalmente è il rapporto tra la redazione e le fonti: le notizie sono alluvionali testimonianze civili, che affiorano in abbondanza dalla rete e devono essere validate e contestualizzate più che rintracciate. In questo gorgo il giornalista si misura innanzitutto con la sua autonomia da saperi e competenze tecnologiche che tendono a soverchiarlo, trasformandolo in un funzionario del sistema di calcolo che si afferma mediante «interferenza nelle psicologie altrui». La Net-war è dunque «mediamorfosi» che trasforma guerra e giornalismo in una contesa matematica.
Con un poscritto di Pierguido Iezzi